O’Neill/Livermore: il successo si addice al Nazionale

Nell’attuale panorama di registi, Davide Livermore occupa una posizione privilegiata: non solo agisce pariteticamente nel campo lirico (non è da tutti inaugurare la Scala per quattro stagioni consecutive) e in quello della prosa, i suoi spettacoli hanno sempre una precisa coerenza stilistica e, soprattutto, sono perfetti sul piano tecnico. Possono piacere o meno le sue idee interpretative, ma certamente Livermore le idee le ha, il che oggi in campo teatrale è tutt’altro che scontato.

E poi sa sfruttare appieno tutte le risorse che un regista ha a disposizione, dalle vecchie attrezzerie sceniche alle ultime tecnologie, con una visione che dal teatro trascende verso altre forme espressive, ad esempio il cinema. Chi ha visto lo scorso anno il doppio spettacolo James/Britten (“The turn of the screw”) ricorderà le invenzioni “antigravitazionali” di un allestimento decisamente affascinante, così come nella maratona dell’”Orestea” di Eschilo di due anni fa, nella grande sfera incombente sulla scena venivano proiettate immagini delle grandi tragedie del nostro tempo.

Proprio all’”Orestea” di Eschilo si collegava lo spettacolo che ieri sera ha inaugurato con grande successo al Teatro Ivo Chiesa la nuova stagione del Nazionale, “Il lutto si addice a Elettra” di Eugene O’Neill.

Uno straordinario spettacolo sotto tutti i punti di vista: per la bella ed efficace traduzione di Margherita Rubino, per la regia e le scene, appunto, di Davide Livermore e per il magnifico cast che ha agito sul palcoscenico.

Il dramma di O’Neill costituisce dunque una interessante “rilettura” della tragedia di Eschilo, naturalmente aggiornata al Novecento e trasferita nell’America alla fine della guerra di Secessione: la psicanalisi freudiana si sostituisce al giudizio degli dei, mentre il tribunale pubblico di Eschilo lascia il posto a un processo che si consuma nella interiorità degli stessi personaggi.

Alla trilogia di Eschilo (Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi), O’Neill oppone tre pieces, “Il ritorno”, “L’agguato”, “L’incubo”.

“Ho avuto la fortuna di lavorare con il cast migliore che potessi immaginare”. Sono parole di Livermore che forse spiegano la scelta registica fatta dall’artista torinese. Ci ha abituato a strutture complesse, ad alta tecnologia. Qui invece si assiste a un lavoro straordinario sugli attori che ha preso il totale sopravvento sul resto. Una scena molto bella con ampie strutture bianche, grigie e nere a delimitare la casa dei Mannon in cui si consuma la tragedia. Una sapiente integrazione della musica (a firma di Daniele D’Angelo) che accompagna l’intero racconto, ora con accenti percussivi, ora con qualche slancio melodico, con citazioni varie da “John Brown” (Glory glory alleluja) a Bruno Maderna e a Giorgio Federico Ghedini. E poi, in una costruzione apparentemente semplice, un attento, approfondito lavoro sui caratteri, sui dialoghi (elemento preponderante del testo, come aveva sottolineato in conferenza stampa Margherita Rubino) sulle diverse dinamiche che regolano i rapporti fra i personaggi.

A raccogliere magnificamente l’intelligente guida di Livermore un gruppo di attori di prim’ordine.

Elisabetta Pozzi che trent’anni fa nell’edizione di Ronconi aveva vestito i panni della figlia Lavinia accanto a Marangela Melato è stata una straordinaria Christine, una autentica signora del palcoscenico. Il ruolo della figlia è stato risolto con altrettanta bravura da Linda Gennari che il pubblico genovese ha ormai da tempo avuto modo di ammirare in tante performance a cominciare dal tragico monologo di “Grounded”. Nella parte del vecchio Ezra Mannon (l’Agamennone di Eschilo) si è visto un eccellente Paolo Pierobon. E bravissimi anche Marco Foschi (il figlio Orin), Aldo Ottobrino (Adam Brant), Davide Niccolini (Peter Niles) e Carolina Rapillo (Hazel Niles).

Uno spettacolo, insomma, che nonostante duri oltre tre ore, scorre fluido e avvincente. Da non perdere.