Covid -19 e tragedia greca

Stiamo vivendo una tragedia, ma credo che pochi abbiano ben chiaro il significato di questa parola. Ciò mi ha suggerito qualche riflessione.
L’umanità ha reagito all’attuale pandemia in maniera globale, molto complessa e con aspetti contraddittori, per il numero di individui potenzialmente coinvolti, ossia tutti, in una società che ormai è da considerare come una gigantesca tribù ( ma preferirei dire polis, visto come proseguirà questa riflessione) di 7 miliardi e mezzo di abitanti, comunicanti e interconnessi da una rete tecnologica, economica, sociale, finanziaria e commerciale di una complessità enorme. Questa mega-polis è anche responsabile delle ambiguità e delle contraddizioni a cui gli esseri umani hanno dovuto e dovranno rendere conto dopo la reazione acuta al fatto pandemico. E in effetti una delle prime aporie che sono emerse è stata la scelta fra la salute dei singoli individui e le conseguenze sociali, economiche e politiche che ne sarebbero derivate. In un primo momento (quello che stiamo vivendo adesso, aprile 2020) le priorità sono state la salute e la vita e ciò, anche in considerazione del tasso di mortalità relativamente basso dell’infezione, ha porto il fianco a molte riserve, dubbi, critiche e contestazioni. Tuttavia non è azzardato supporre che se la scelta fosse stata esclusivamente economico – finanziaria ( come in principio si era prospettato per esempio nel Regno Unito) le reazioni sarebbero state identiche e comunque non meno nè più sostenibili. Ma veniamo alla parola tragedia, da cui siamo partiti. Se consideriamo il numero degli individui che popolano la nostra attuale polis globale e lo rapportiamo con la polis classica, quella greca del V secolo a.c. , non è difficile notare un’analogia quasi ricalcata, con sole differenze quantitative, fra la situazione attuale, con la relativa reazione a livello di stati e governi, e quella così ben rappresentata in Grecia dalla tragedia attica, ove ai governi si può sostituire l’eroe tragico, e all’opinione pubblica la coscienza dell’individuo e quella del fato, o delle menadi, o altro, espresse nel teatro dalla voce del coro. E’ curioso allora constatare come nulla sia cambiato nelle dinamiche psicosociali ad onta di un progresso tecnologico immenso, e come ancora una volta i Greci avessero capito ed anticipato tutto.

Genelli, Dioniso tra le Muse
Genelli, Dioniso tra le Muse

Il messaggio della tragedia attica
Nella tragedia attica l’eroe tragico si trova di fronte ad una situazione nella quale il proprio carattere, il proprio daimon si trova a confliggere con altri, pure essi domìni del divino. Che cosa farò? si chiede Oreste. Perchè c’è un daimon che gli dice che non deve uccidere la madre, e un altro daimon per cui non può lasciare invendicato il padre. E cioè l’eroe tragico si trova gettato, (per dirla alla Heidegger) in una situazione in cui le regioni del divino sono molteplici e in contraddizione fra loro. Questa è la caratteristica essenziale della tragedia greca. Analogamente possiamo dire che i governi, o comunque quell’individuo sociale in questi giorni formato dalla classe dirigente politica, si trova al cospetto di due demoni di cui uno dice, non si può lasciar morire nessuno, e un secondo che dice, non si può fermare l’economia di un paese o addirittura del mondo.
L’eroe tragico è chiamato tuttavia a scegliere non fra ambiti di umana competenza, ma in merito a diverse regioni del divino, timai divine. L’eroe deve decidere, ma sa che ogni decisione comporta necessariamente il contraddire un’altra timé pure essa divina. L’eroe tragico lo sa, quindi non è innocente, mai . Egli è reus nel senso etimologico del termine, perché è sempre chiamato in re, in causa, nel significato latino di res che è la causa, la causa dei tribunali. Finisce cosi per rispettare una timé divina, mentre un’altra timé gli fa causa, esige la sua giustizia. La tragedia ha l’anelito che l’uomo sia eu daimon , cioè che stia bene col suo demone. Ma come può l’uomo stare bene col suo daimon se le timai divine sono molteplici e in contraddizione fra di loro? Questa domanda travaglia la tragedia: come può l’uomo corrispondere a questa situazione senza dare risposte schizo – freniche ossia con due cervelli separati? E ancora; come può l’uomo invocare innocenza? La giustificazione, “non l’ho fatto apposta”, “non avevo scelta”,” non lo potevo sapere” è una puerilità borghese che non ha senso nella tragedia attica. Tu, uomo, sei colpevole per ciò che fai a prescindere se lo volevi o no fare. Tu sei colpevole per il destino che rappresenti. Se non si capisce questo non si è capito nulla della tragedia greca. Non si riesce neanche a vedere il tragico, il quale non sta nella morte o nelle stragi, ma nel dissidio interiore dell’uomo.
Di certo ogni scaturigine politico-sociale dettata oggi da un dato daimon, è chiamata in causa dalla voce dell’altro daimon e ne subirà giudizio. Si dovrà accettare la colpa, senza alcuna superbia. Ma anche qui la tragedia viene in aiuto. Tutti gli eroi tragici hanno la ubris, ( uper, superbia) cioè l’impulso ad oltrepassare il proprio limite, la propria finitezza. E la superbia per eccellenza sarebbe proprio quella di ritenersi non reus, innocente. La tragedia è un grande fatto civile, un grande rito laico, politico, Se l’uomo saprà affrontare gli stessi pericoli dell’eroe tragico cercando armonia fra le diverse voci che gli provengono dal divino, allora farà città e si salverà. Il grande tema finale della tragedia è proprio questo. Occorre fare città. L’eudaimonia è tutt’uno con la eupoliteia, la buona città. Questo anelito ad una politeia ben fondata domina nella tragedia, almeno in Eschilo e in Sofocle.
Oggi le ubris dei singoli partiti o prese di partito in opinioni trasversali a livello globale, non dovrebbero prevalere su nulla e nessuno. Come l’individuo della tragedia greca deve uscire dalla propria ubris e fare città, così, in questa emergenza si deve affrontare la scelta fra isolamento nazionalista e solidarietà globale. Ma tuttavia ubris c’è, sia a livello europeo ( con atteggiamenti e affermazioni della BCE, per esempio) che a livello planetario ( per un altro esempio, la grinta esibita in alcuni frangenti dall’amministrazione statunitense). L’aporia fra la pandemia in sé e la conseguente crisi economica, sono problemi che possono essere affrontati efficacemente solo con la cooperazione di tutti i paesi, proprio come avveniva agli individui nella grande agorà della polis greca. Le strategie globali che potrebbero essere adottate sono state per esempio tratteggiate da Harari : “L’umanità deve fare una scelta.[….]. Se sceglierà la divisione, non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente provocherà catastrofi ancora peggiori in futuro. Se sceglierà la solidarietà globale la sua sarà una vittoria non solo sul nuovo coronavirus, ma anche su tutte le epidemie future e sulle crisi che potrebbero scoppiare in questo secolo.”

Nietzsche e Wagner
Nietzsche e Wagner

Chi sei tu Zeus?
E ancora la tragedia si ferma alla grandiosa domanda presente già in Eschilo: “Chi sei tu, Zeus? Perché mi parli con discorsi opposti?” E’ la grandiosa domanda dei dissoi logoi, i discorsi doppi del dio, ma la tragedia non ne da risposta. E’ a questo punto che in Grecia , nel V secolo, la filosofia cerca di rispondere alla domanda. La tragedia dice: impara a sopportare la contraddizione, accontentati di contemplarla. La filosofia invece no, risponde, guariscine. Io ti do una teoria (Zeòn orao); io vedo dio, la verità, e attraverso di essa posso guarirti. . Ma adesso dio non solo non parla più doppiamente, non parla proprio più. E’ morto. I decreti del presidente hanno chiuso le porte di dio, le chiese, e il papa ha parlato da solo in una piazza S.Pietro deserta. La gente non si rivolge più a dio, non può più farlo, proprio come i greci, ad un tratto, non si rivolsero più alla tragedia. La filosofia nacque dunque dalla tragedia e si propose di offrire la soluzione ai dubbi e alle problematiche della tragedia. Da allora la grande filosofia occidentale parla tutta, integralmente, in questa direzione; da Platone fino alla grande crisi dell’ottocento, fino a Nietzsche. Oggi la scienza si impone globalmente sulla filosofia, alla quale non restano che dissertazioni sull’essere su cui indugiano pochi specialisti e qualche poeta. Quindi mito, tragedia, filosofia, scienza: questo è il cammino del sapere umano. Nel V secolo a.c., come osserva Nietzsche, con Euripide da un lato e Socrate dall’altro, la tragedia muore, ammutolisce al cospetto della filosofia. Analogamente adesso dio è morto ( ancora Nietzsche!), non ucciso, ma a sua volta ammutolito dalla scienza. Dio non ha più niente da dire. I sacerdoti della scienza frequentano gli altari dei talk show televisivi e propongono rituali che, a ben vedere, sono simili a quelli dei vecchi preti: l’eucarestia del vaccino che salva dal peccato di cui, come il peccato originale, non si è rei, ma eredi; rei caso mai di diffonderlo. La scienza non propone di sopportare la sofferenza come la tragedia, ma di eliminarla come la filosofia.

Eschilo
Eschilo

I dissidi della scienza
Ma tuttavia anche la scienza ha linguaggi doppi, dissoi logoi: il virus è naturale, no è stato un errore sfuggito ai laboratori. Il virus cederà al caldo dell’estate, no avremo nuovi focolai ben peggiori in autunno. L’epidemia sparirà dopo settanta giorni, no ce lo terremo per anni. Il virus si contrae anche toccando oggetti esposti, no si trasmette solo attraverso le goccioline. Bisogna indossare le mascherine, no le mascherine non servono a niente. Bisogna stare a un metro di distanza, no ci si contagia fino a cinque metri. Il contagio dà immunità, no non la dà. Il vaccino sarà pronto fra tre mesi, no fra due anni. Il virus può provocare una polmonite interstiziale, no una coagulazione intravasale disseminata, eccetera. La tragedia ammutolisce ma i dissoi logoi del dio passano alla scienza anche se con minore potenza. Nella scienza un logos falsifica l’altro. Nella tragedia sono sacri entrambi ed è proprio qui il senso profondo del tragico. Nel dilemma fra biologia ed economia si ripropone adesso il conflitto del doppio daimon. Dalle tenebre di una crisi emerge intatta l’essenza della tragedia. Nella terza crisi globale della storia, quella dell’ottocento, la tragedia si riappropria dei dissoi logoi e rinasce.
Ci prova, nel teatro, con Wagner, proprio mentre Nietzsche ne stigmatizza l’esistenza e il carattere in filosofia, uccidendo la metafisica e cambiando per sempre il pensiero occidentale. Adesso, con questo maledetto virus, la tragedia è tornata di nuovo innegabilmente e meravigliosamente Greca.