Edoardo Sanguineti, ricordi musicali a dieci anni dalla scomparsa

Fra le opere che amo maggiormente, un posto privilegiato occupa Don Giovanni. E questa mia predilezione mi porta spesso ad assumere un atteggiamento critico particolarmente severo quando assisto ad allestimenti a mio parere poco rispettosi del capolavoro mozartiano. Anni fa (era il 2006) mi capitò di vedere al Carlo Felice una edizione del Don Giovanni che trovai registicamente irritante tanto che fui alquanto duro nel mio resoconto giornalistico. Racconto questo episodio perché quello spettacolo  fu la causa di un “incontro” per me particolarmente fortunato con il poeta e letterato Edoardo Sanguineti di cui oggi ricordiamo la figura nel decimo anniversario della scomparsa, ponendo l’accento su un particolare aspetto della sua poliedrica attività, il suo “secondo mestiere” di librettista. Conoscevo Edoardo Sanguineti dal 1997 quando mi aveva concesso una piacevolissima intervista per “Il giornale della musica”. E nel 2001 lo avevo invitato a far parte del Comitato scientifico per le Celebrazioni genovesi dedicate a Verdi. Capitava dunque, di incrociarci a teatro e scambiare qualche parola. In quella serata del Don Giovanni gli espressi il mio disappunto per quel che stavamo vedendo. Lui, con un sorriso ironico, mi spiazzò confessandomi che in realtà lo spettacolo gli piaceva. Rimasi stupefatto e nello stesso tempo incuriosito da quel giudizio per me inconcepibile che avrei voluto però approfondire.

Un paio d’anni dopo, ripensando a quell’incontro,  mi venne l’idea di proporgli un libro a quattro mani, una conversazione sul teatro musicale. Il progetto gli piacque, trovammo l’editore “Il melangolo” disponibile e, dopo qualche mese (nel frattempo Sanguineti aveva avuto un incidente domestico che lo aveva obbligato a una lunga degenza) si cominciò a lavorare.

Andavo, dunque, a casa sua. Abitava sulle alture di Rivarolo in una casa dai due portoni che si affacciano su altrettante strade dai nomi emblematici: via Cimarosa e via Pergolesi.

Mi riceveva in giacca da camera o maglione, ci sistemavamo attorno al tavolo di cucina. Il suo studio era impenetrabile, colonne di libri dappertutto, non c’era posto per sedersi. La cucina non solo era accogliente, ma assicurava un clima familiare, amichevole. Ponevo un registratore sul tavolo, spesso affollato di giocattoli del nipotino. E, fatto partire il marchingegno, iniziavano le conversazioni, spesso contrappuntate da commenti della moglie, la signora Luciana, chiamata in causa per ricordare di volta in volta un evento, una data, un particolare. Le riflessioni, dunque, si mescolavano ai ricordi e sfilavano, uno dietro l’altro, i personaggi di una lunga storia di arte e cultura.

Sanguineti e Iovino a  Montebruno

La musica era stata una passione giovanile. La tastiera di un pianoforte, lo strumento per esprimerla. Poi ragioni di salute lo avevano costretto a rinunciare a quello studio quotidiano, ma la musica gli era rimasta dentro e lo ha accompagnato tutta la vita. Il “secondo mestiere” iniziò per Sanguineti con l’incontro con Luciano Berio. I due artisti si “trovarono” subito e a partire da Passaggio (1961-62) ebbero numerose e proficue collaborazioni: basta pensare a Laborintus II (1963-65), ad A-ronne (1974-75), al Canticum Novissimi Testamenti I e II (1974) e a Stanze (2003).

Nel tempo a Berio si erano aggiunti numerosissimi musicisti, affascinati dal mondo poetico di Sanguineti, ma anche dalla sua disponibilità a creare, a sperimentare. Il “catalogo” sarebbe davvero lungo: basta ricordare Globokar, Manzoni, Morricone, Scodanibbio, Cattaneo e i genovesi Damerini, Ermirio, Basevi, Liberovici, Dapelo, Pastorelli, Silvestri.

“Ci sono due modalità diverse di collaborazione – spiegava Sanguineti – La prima si ha quando si compone un testo per un musicista. Allora occorre trovare un accordo e questo può risultare immediato o richiedere discussioni. L’altro caso invece si ha quando si scrive un pezzo senza pensare che possa essere musicato. Se un musicista, poi, lo sceglie, ha lui tutto in mano. Ho un’idea servile della parola nei confronti della musica. Se un musicista tratta le mie parole in modo che siano riconoscibili, bene. Ma se le usa come pretesto e le riduce a singoli suoni non mi sento turbato”.

E poi le sue passioni musicali. Sanguineti amava Verdi, provava poca simpatia per Puccini, ancora meno per Mascagni. Gli piaceva, curiosamente,  il Nerone di Boito, e, naturalmente, il teatro espressionista, Schoenberg e molto Novecento: “… un punto di riferimento, nella mia formazione giovanile, proprio dal punto di vista letterario – ha dichiarato –  era la ricerca dodecafonica come modello di rigore compositivo, che aspiravo a trasportare appunto sul terreno della letteratura”.

Quel libro ideato e realizzato insieme, purtroppo si interruppe per l’improvvisa scomparsa di Sanguineti. In accordo con l’editore e la famiglia, ne approntai un’edizione postuma, lasciando il testo così come lo avevamo visto l’ultima volta insieme e inserendo “omissis” laddove il discorso avrebbe avuto bisogno di qualche ulteriore chiarimento.

Resta nello scrivente il ricordo di una serie di conversazioni illuminanti e di una personalità straordinaria non solo sul piano culturale, ma umano.

Controcorrente, aperto a ogni esperienza, Sanguineti aveva uno spiccato senso dell’ironia che gli consentiva di guardare al proprio mestiere di letterato con il dovuto distacco: “Personalmente cerco di combattere la mitologia del poeta, l’idea di essere in possesso di virtù misteriose. Per me è naturalmente l’aspetto fondamentale del mio lavoro. Non posso dire che sia quello in cui riesco a dare il meglio di me: certamente è il campo in cui m’impegno maggiormente. D’altra parte non condivido l’idea del poeta puro, lavoro ad ampio raggio e mi piace farlo su commissione. Ho iniziato come molti scrivendo qualche poesia. Poi ho composto testi critici per mostre di amici pittori. A un certo momento ho sostituito l’articolo a versi e l’idea è piaciuta. L’occasione, dico sempre, fa l’uomo scrittore”. Quello stesso distacco, quella ironia che gli ha fatto scrivere di se stesso: “Mi sognavo simile a un Hoffmann in delirio: e sono quasi il sosia di un mediocre comico inglese” (Reisebilder 29).