Due passi nella logica

Nella tragedia attica l’eroe   si trova  a confliggere con i demoni del divino. “Che cosa farò?” si chiede Oreste.  Perché c’è un daimon che gli vieta di uccidere la madre, e un altro  che gli ordina di non lasciare invendicato il padre. Conflittualità analoghe sono presenti in tutte le tragedie di Eschilo e Sofocle e in parte in quelle di Euripide. L’eroe tragico si trova gettato, (per dirla alla Heidegger) in una situazione in cui le ragioni del dio sono molteplici e  contraddittorie. Deve decidere, ma sa che ogni decisione comporta il contraddirne un’altra  pure essa divina. L’eroe tragico lo sa, quindi non è innocente, mai. Come posso decidere fra due Timai  entrambe divine, ma in contrasto fra  loro?  “Chi sei tu, Zeus? Perché mi parli con discorsi opposti?” Questa  domanda travaglia tutta  la tragedia.  Come può l’uomo  dare risposte  non schizo – freniche ossia non crearsi due volontà, due cervelli separati, ma entrambi colpevoli? Oppure bloccarsi?  E’ la più  grandiosa delle domande: ma la tragedia non risponde.

E’ a questo punto che in Grecia , nel V secolo,  la filosofia si propone: quale dei due demoni dice la verità? Alla domanda “chi sei tu, Zeus?” si sostituisce “che cosa è la verità?”

Da quel momento, con Platone, incomincia la lunga  ricerca  logica che attraverso Aristotele, gli Stoici, la Scolastica, Leibniz,  Kant, Frege, Russel (solo per citare le tappe essenziali) porterà fino alle tavole di verità di Wittgenstein e oltre, a Godel, Tarski, Turing e infine ai computer. I computer e la tragedia attica; un’unica, grande via che solo apparentemente sembra separata, estranea a sé stessa.

Proviamo  dunque a fare quattro passi  nella logica, magari girovagando a naso all’aria, come si fa in quei musei in cui si ha solo un’idea delle cose esposte. E vediamo cosa ci viene in mente.

La tragedia attica presenta il paradosso di decisioni impossibili, o meglio, incompatibili e contraddittorie, eppure entrambe irrinunciabili. Con l’avvento della filosofia la tragedia muore, ma i dubbi, le aporie rimangono. La logica  si rende presto conto che  il Logos, il discorso, l’arte del ragionare, ha dei limiti. Col solo ragionamento non si capisce come Achille possa raggiungere la tartaruga, o la freccia  partire o il mentitore dire la verità e non dirla al tempo stesso. Eppure chiunque  può correre più di una tartaruga, anche senza essere Achille, la freccia parte e arriva, eccetera. Ci si rende  conto che la logica, forzata all’estremo, ha qualcosa che la conduce fuori dalla realtà, oltre la realtà fisica, dentro cui  però si vive. Ossia la ragione ha qualcosa che va oltre (meta) la phùsis (natura), ossia è sopra-naturale, meta-fisica. Come dio. E allora, però, forse si capisce che la si può interrogare  per crederci, in dio. Si scopre che la ragione può fornire le prove dell’esistenza di dio. Siamo alla Scolastica; si deve capire per credere (Abelardo). Ma qualcuno si accorge  che se si  capisce, se si hanno delle prove, allora non serve credere. Quella cosa c’è, e basta. Forse bisogna invece credere percapire (Anselmo), ma allora siamo punto e daccapo. La ragione si arena. C’è qualcosa che non va in tutto il discorso. Forse il problema sta in un linguaggio  ambiguo. E’ difficile definire le parole, darne  un senso inequivocabile, un significato certo. Forse la matematica può indicarne la strada. Leibniz arriva a sognare un linguaggio universale, non ambiguo, basato sulla logica proposizionale di Aristotele e degli Stoici, ma esteso ai predicati; e al tempo stesso formale, ossia basato su formule. Egli però non ci riesce. Bisognerà  aspettare Frege, nel XIX secolo, per realizzare il sogno. All’inizio del XX secolo, appoggiandosi alla teoria degli insiemi, mutuata dalla matematica, Frege, con la sua “Ideografia”, si sente ad un passo dal sogno di Leibniz: un linguaggio formale capace di chiarire tutta la logica, dagli assiomi alle regole, senza aporie. Ma nel 1903 avviene la catastrofe. Uno studente  inglese, nobile e squattrinato, di nome Bertrand Russel fa notare a Frege che anche la teoria degli insiemi ha un’aporia. E propone un paradosso. Un insieme contiene. Può contenere qualsiasi cosa, per esempio tazzine. Ma un insieme di tazzine non è una tazzina. Se un insieme può contenere qualsiasi cosa, può contenere anche un altro insieme. Quindi un insieme che contiene tazzine non contiene se stesso, mentre un insieme che contiene degli insiemi, contiene se stesso. Allora ci sono insiemi che contengono se stessi e insiemi che NON contengono se stessi. Ora, un insieme che contiene insiemi che NON contengono se stessi, contiene se stesso? Se si, allora non può far parte degli  insiemi che NON contengono se stessi, perchè contiene se stesso. Ma se invece NON fa parte degli insiemi che NON contengono sé stessi allora non contiene se stesso e quindi ne fa parte. Il discorso si rincorre, non ha soluzione, è paradossale. Altro esempio, un po‘ più ardito, ma forse più semplice, è un insieme che contenga il vuoto. Il vuoto  è un concetto, ma anche i concetti sono oggetti. Il concetto di vuoto specifica un insieme di proprietà (le proprietà di NON avere proprietà). Allora un insieme che contiene il vuoto contiene qualcosa o no?

Insiemi di insiemi. A sinistra un insieme che contiene insiemi che contengono se stessi. A destra un insieme che contiene insiemi che non contengono se stessi

 

Se può sembrare  complicato e un po’ fumoso, si può concretizzare col paradosso del bibliotecario o con quello del barbiere, che non espongo per brevità, ma che si trovano facilmente.  I dubbi degli eroi tragici non sono tanto diversi, ed erano già talmente noti da entrare nel mito, nella letteratura e nel teatro che nella  Grecia Attica  era  popolare come adesso lo è la televisione e faceva cultura, come adesso  la televisione. Ovunque ci si giri, nella storia e nella filosofia, ci si imbatte in paradossi del genere. Persino Nietzsche, che tanto lontano appare da simili riflessioni, ci cade. Quando sostiene che i fatti non esistono, ma esistono solo le interpretazioni, dimentica che le interpretazioni si applicano a fatti, e pertanto se i fatti non esistono non possono esistere neanche  interpretazioni di fatti.

Però sia Russel che altri  (Wittgenstein, Tarski etc.) proposero  soluzioni al paradosso  introducendo i livelli. La verità ha diversi livelli. Qualsiasi definizione di verità si può dare ad un certo livello, ma non  su altri.  Tarski ha scoperto che nessun linguaggio (anche matematico) può contenere la propria versione di verità, perchè se lo potesse  si  riprodurrebbe il paradosso del mentuitore (“io sto dicendo il falso”). Analogamente i vari insiemi appartengono a livelli diversi di proposizioni. In pratica sono metalinguaggi. Per esempio, Antigone che può e non può ( e quindi deve e non deve) dare sepoltura al fratello, si trova a sceglier certo fra due TIMAI opposte, ma su livelli diversi. Il livello sociale (le leggi dello stato) e il livello individuale, affettivo famigliare (l’amore per il fratello). E’ la questione del doppio vincolo, che tormenta da sempre la vita degli uomini ed è presente in molte scelte etiche o politiche: il mio vantaggio personale o il rispetto delle regole della comunità? Si chiama ”conflitto di interessi” e ne abbamo sentito parlare spesso forse senza immaginare che è anche  un problema matematico. Ma non solo. La faccenda  si presta a notevoli estensioni in svariati ambiti; ne siamo stati  vittime nella recente pandemia: la salute collettiva (ma preferenzialmente di una porzione della popolazione, il che , oltretutto, sottintende un  predicato complicandone l’incosistenza) o le conseguenze socio economiche e psicologiche che ne sarebbero derivate? La storia meno recente fornisce innumerevoli esempi analoghi e  ben più tragici. Ma cito questa perchè l’abbiamo vissuta ieri.

Sui risvolti psicologici individuali ci si può sbizzarrire partendo dall’asino di Buridano che muore di fame perchè equidistante da due covoni di biada uguali. La storiella è curiosa per vari motivi. Innanzitutto perchè ne hanno parlato in tanti (da Aristotele a Ovidio , da Dante a Spinoza, da Leibniz  a Voltaire e Schopenauer e magari qualche altro che non ricordo, ma curiosamente non  Buridano nei cui scritti non compare) e ciò è indice del disagio che il problema della scelta ha sempre suscitato. Insomma, è più comodo e meno rischioso ubbidire  che decidere. Un motivo ci sarà. Forse, alla fin fine, l’ uomo ha paura di scegliere e preferisce che qualcun altro scelga per lui; non ne sono certo, ma temo che derivi dal fatto che molti  discendono da schiavi e pochi da padroni. I sudditi sono sempre stati molto più numerosi e prolifici dei re. Sulla metafora dell’asino, Leibniz osserva tuttavia che in natura, contrariamente che in matematica, non esistono due realtà perfettamente identiche, per cui si troverebbe sempre una differenza, seppur minima, su cui scegliere. Ma se la differenza fosse troppo piccola, lascerebbe come “resto”una base di disagio che si chiama “senso di colpa” che ha il guaio di persistere a lungo oltre la scelta e di condizionare altre scelte: una vera nemesi. Nel caso però che l’alternativa fosse assolutamente identica, non resta che la decisione casuale o il blocco ( che si può anche chiamare follia).

Altra riflessione interessante riguarda la teoria di Bateson (scientificamente obsoleta, ma istruttiva) della madre schizofrenogenica che sommerge il figlio di messaggi ambivalenti colpevolizzandone comunque  la scelta (Ti ho regalato due camicie. Ne hai indossata una. Vuol dire che l’altra non ti piace?). Di fronte al doppio vincolo, il figlio svilupperebbe funzionalmente due cervelli comportamentali che finirebbero per alternarsi ed entrare in conflitto come avviene, più o meno , nella schizofrenia.

Dunque il dramma umano era e rimane quello della scelta. Biologicamente, più i sistemi nervosi sono complessi, più possiedono alternative di scelta. Il nostro è, in quasi tutte le sue funzioni, “degenerato” che significa capace di raggiungere la medesima funzione attraverso vie diverse. Le meduse non hanno questi problemi. Per noi (ma non per le meduse)  è nata la questione del libero arbitrio, spina nel fianco di ogni etica. E probabilmente da questo nascono buona parte delle angoscie e dei drammi sociali che ci tormentano. Nonostante siamo avvezzi e, in fin dei conti, adatti all’impiego di linguaggi ambigui, proprio l’ambiguità, che ha la sua apoteosi  disfunzionale nei paradossi logici, è la fonte principale dei fraintendimenti, delle conflittualità sociali e delle guerre. Perché la verità esiste, ma non è una sola, o meglio, è su svariati livelli. Ci sono verità e metaverità che si esprimono in linguaggi e metalinguaggi. Non solo, ma nel 1931 Godel arriva a dimostrare che ci sono delle verità indimostrabili.

 Ci sono, insomma, delle “malattie” della verità. Anzi la verità è in sè un concetto malato. Insomma, è vero che non c’è la verità! E’ vero che non è vero! Rispunta il paradosso di Russel; non riusciamo proprio a liberarcene!

La verità è sempre incompleta  ossia contiene asserzioni non dimostrabili e non refutabili (teorema di incompletezza di Godel). Bisognerebbe esserne consapevoli, prima di schierarsi contro il relativismo (a meno di non puntellarlo con la fede che fa accettare tesi non dimostrabili).  Esistono di conseguenza   anche malattie connesse col linguaggio, per esempio l’ebefrenia e la paranoia (due quadri della schizofrenia).

Curioso infine il fatto che, proprio dagli studi dei  logici (da Aristotele ad Alan Turing), è scaturita la base  su cui si fondano l’informatica e i computer e il loro modo di dialogare con noi .  I quali computer però, sia ben chiaro, NON ammettono linguaggi ambigui. E questo è un’altra fonte di disagio per noi che viviamo (pur soffrendone) di ambiguità. Forse, come spesso accade, il rimedio ( o magari l’alternativa) non ha risolto il male, ma lo ha complicato. Un male però che rimane sempre, trasversale ad ogni rimedio,  è strutturale, vitale. Già il vecchio Kant, nella Critica della ragion puraaveva detto che se la ragione vuole essere consistente (che nel linguaggio logico vuol dire priva di contraddizioni) non può essere completa, ossia è incompleta (che nel linguaggio logico vuol dire che ci sono asserzioni non dimostrabili e non refutabili). Qui sta la radice della tragedia di Antigone e di tutti gli eroi attici. Il cerchio si chiude (ma non si conclude).

Allora lascio concludere questa chiacchierata inconcludente ad un aforisma di Wittgenstein, il 6.52 del Tractatus logico-philosophicus: ” Noi sentiamo che, anche nel caso che tutte le possibili domande scientifiche abbiano ricevuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora minimamente toccati. E’ vero che allora non resta più nessuna domanda; e proprio questa è la risposta.”