La culla nova

“Oh, Toto mio, Toto mio, fa che il mio dolore trovi un eco nel tuo, perché ho bisogno di chi mi comprende. Io sarò infelice eternamente. Non scacciarmi, pensa che siamo soli sulla terra. Oh, Toto, Toto, scrivimi per carità, per amore del tuo Gaetano”.
“Toto mio, non mortificarmi col credere ch’io non t’abbia scritto. Io l’ho fatto appena ho potuto e tu sei tuttora il primo al quale indirizzo lettere. Il come e il quando io abbia perduto tanto bene, scusa, Toto mio, ma non sono ancora in grado dirtelo ; ancora credo sognare, ancora la porta fatale è chiusa ed ancora non mi fido a restar solo. La pena che io provo per voialtri è pari alla mia; ma credilo, Toto mio, io non ho risparmiato cosa: tridui, voti, medici, la mammana… E che serve il dire? Io sarò eternamente infelice! Non oso dirti di venire in ottobre, chè conosco la pena che ti faccio, ma forse uno sfogo farà bene per entrambi… Qui di colera non si muore, che già sarei sotterra; ma invocai la morte di cuore come ora il feci. Pazienza! Stamane diedi via la culla nova, che doveami pur servire… Tutto,
tutto ho perduto. Senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli… per chi lavoro io dunque? Perché? Oh, Toto mio, vieni, te ne prego in ginocchio, vieni in ottobre. Forse mi sarai di conforto ed io a te… Per la malattia, sarà finita, chè oggi sette casi. La casa era per lei, la carrozza per lei… nemmeno la provò… Dio, Dio… Toto mio, scrivi e scusa se ti importuno ora più del solito. Sarò infelice, tu solo mi resti, fino che essa avrà intercesso da Dio la mia morte e la nostra eterna unione. Addio, saluta mammà. Tuo Gaetano”.
Napoli, 12/8/1837

Con queste parole, indirizzate ad Antonio Vasselli, fratello dell’adorata moglie, Gaetano Donizetti stigmatizza lo stato d’animo che lo pervade nei giorni che seguono il fatidico 30 luglio 1837, quando tra le 3 e le 4 del mattino la sua Virginia lascia questo mondo all’età di 29 anni in un appartamento sito al n. 14 di Via Nardones, nel cuore di Napoli, nei pressi del Teatro San Carlo, dove avevano visto la luce ben 13 delle 27 opere composte dal maestro nel periodo napoletano. L’aveva conosciuta durante uno dei suoi primi soggiorni a Roma negli anni venti. Figlia di un magistrato romano, di famiglia benestante, se ne era innamorato e decise di sposarla nella città eterna il 1° Giugno 1828 nella chiesa di Santa Maria in Via.
– Dai, dai, dai, dai, prendete un bel respiro e spingete più forte!
– Ah, oh! Non ce la faccio, sono esausta! E’ da stanotte che ho le doglie e sto spingendo con tutte le mie forze
– Calmatevi, Virginia, quando sentite arrivare la contrazione, assecondatela e spingete più forte che potete… Vedrete che fra poco nasce.
– Aaaaaaaaah, aaaaaaaaah- gridava la donna, la fronte imperlata di sudore, lo sguardo fisso
nel vuoto…
– Avete chiamato il dottore?
-Sì, sì l’ho chiamato, cara, ma era impegnato in Via dei Tribunali, al capezzale di un coleroso in fin di vita. Tra poco sarà qui…
-Oh, Dio mi liberi da questo tormento. E Gaetano? Dov’è Gaetano?- chiese Virginia alla mammana.
-Si è recato dal Cammarano, pel suo lavoro; starà poco a rientrare… In quel mentre si apriva la porta.

-Virginia, Virginia cara, come sei pallida, stai soffrendo? Avete chiamato il medico? Qui
bisogna far presto.
E, rivolto alla mammana :
– E voi, cosa fate lì impalata? Aiutatela! Non vedete che non ne può più?
– Sì, Signor Maestro, certo che la aiuterò! Il medico tra poco giungerà. Abbiate pazienza.
– Pazienza? Muovetevi, maledetta mammana, ma non la vedete che è sfinita? Ha gli occhi spenti, incavati nel viso!
– Certo, Signore, certo. Farò come dite!

Passarono ancora sei ore e, al termine dell’infinito travaglio, condotto senza che il medico fosse arrivato, la sventurata, senza neanche un gemito, perché non ne aveva più le forze, partorì.
Nacque un maschio, dalle forme insolite, esile, muto. La mammana, tagliato il cordone, lo pose su un tavolo, lo strofinò, lo massaggiò, tenendolo al caldo, cercando di farlo respirare, ma dalla sua bocca non si udivano che irregolari singhiozzi che non somigliavano a un vagito.
Nella camera silenzio assoluto. La madre svenuta, il maestro lo sguardo attonito e impietrito dall’immane tragedia che si stava compiendo. La mammana con continue manovre di rianimazione pareva manipolare un fantoccio grigio, flaccido e inanimato. In meno di un’ora si concludeva lo strazio.
Sugli occhi inespressivi del maestro, era calato un velo; dentro il suo cuore scendeva un dolore sordo e cupo che, dopo la morte di Virginia, occorsa dopo quaranta giorni, si riverserà totalmente nel canto e negli stati d’animo dei suoi personaggi, che non saranno mai accademici, ma intrisi di quella umanità e di quel fondo tragico della vita che tanto lo aveva colpito.

Virginia, assalita da febbre altissima nei giorni a seguire, doveva andare incontro al destino del figlio, preda di una sepsi puerperale che i molti medici accorsi non seppero arginare. Spirò il 30 Luglio 1837, la vigilia dell’esecuzione della Cantata La preghiera di un popolo, composta da Donizetti per il compleanno della seconda moglie del re Ferdinando II che venne eseguita al Teatro San Carlo. Data la situazione di emergenza a Napoli per l’epidemia
di colera, fu necessario seppellire Virginia subito, lo stesso giorno del decesso. Il funerale si tenne successivamente presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie in Via Toledo.
Tre mesi dopo, il Teatro San Carlo acclamerà il Roberto Devereux, con libretto di Salvatore Cammarano.
Dopo che la Direzione dei Regi Teatri gli aveva preferito Saverio Mercadante come nuovo Direttore del Conservatorio, Donizetti lascerà con amarezza la città partenopea che tanto lo aveva amato, partendo alla volta di Parigi.