Bergamo invernale, con le sue donne alte e laboriose, con la funicolare o la lunga Via Pignolo che ti portano nella sacralità della Città Alta; dove al Gombito, in Birreria ti rifugi con la fidanzata per scampare al gelo che ti penetra le ossa e che svanisce dopo aver spazzolato un piatto di “Casoncelli” con la birra locale; Bergamo medievale di Piazza Vecchia, con le sue torri e fontane che ti conduce per mano attraverso la storia fino alle due chiese, la Cattedrale e Santa Maria Maggiore. Di queste, l’ultima è un miracolo d’arte. Costruita per ringraziamento alla Vergine dopo la fine della peste del 1135, nella sua verticalità ti accoglie con il coro ligneo ornato sui disegni di Lorenzo Lotto, l’affresco dell’Albero della vita della scuola di Giotto, preziosi arazzi fiamminghi e fiorentini e il toccante insolito crocifisso del trecento sopra l’altar maggiore dalle forme inconsuete. Ma in fondo; sì, in fondo alla chiesa c’è il nume tutelare della Bergamo dei melomani : il maestro Donizetti nella sua ultima dimora terrena, a due passi dal suo mentore , Simone Mayr. Il marmo bianco, opera di Vela, ritrae un’esile figura di donna piangente coronata di stelle ripiegata su una lira a rappresentare l’ Armonia dolente; sotto una tastiera scolpita è il ritratto del musicista dentro una medaglia; in una lastra più in basso piccoli angeli musicanti e dolenti circondano un angelo affranto in ginocchio con le mani sul volto. Ogni anno, in questa chiesa si rinnova la commemorazione del Dies Natalis del maestro , il 29 novembre 1797 e ogni anno, in pellegrinaggio una folla di fedelissimi italiani e stranieri si ritrovano felici a stringersi, infreddoliti, davanti alla porta della chiesa, in attesa del concerto che si tiene intorno alle 20 per celebrare insieme un rito. A Bergamo nelle sere di novembre la colonnina di mercurio scende impietosamente vicino allo zero o anche sotto, ma ciò che importa è vivere Donizetti, la sua sensibilità, la sua musica.
Quest’anno però è un anno diverso! Una feroce pandemia ha falciato più di seimila vite umane tra febbraio ed aprile nella bergamasca; nelle vie del centro una lunga colonna di mezzi dell’esercito , più di settanta, è transitato per trasportare nelle regioni vicine le bare di tante persone vittime del Coronavirus che il cimitero monumentale non era più in grado di accogliere. Di fronte a questa tragedia, in conformità alle opportune decisioni del governo , accogliere migliaia di persone per il festival lirico è impossibile. Ma i tenaci e intraprendenti bergamaschi non si sono arresi e, pur senza pubblico, hanno voluto offrire agli affezionati le opere preparate in versione On-line. E’stato un gesto forte dei vertici, delle masse artistiche e dei cantanti che si sono resi disponibili per andare in scena davanti a un teatro deserto, restaurato dopo tre anni di lavori.
Veniamo al Marino Faliero diretto da Riccardo Frizza (20 novembre). Orchestra sul palcoscenico con archi davanti al maestro; fiati, ottoni , percussioni e coro separati da una lastra di Plexiglas dietro lo stesso; scena e cantanti in platea alle spalle del maestro. In scena domina l’oscurità infranta da poche luci fisse: scale e ponteggi di ferro; colori sgargianti di giacche colorate di mimi e artisti del coro creano un po’ di sconcerto. La musica a sostegno del coro è di rara bellezza evocativa, ispirata a toni risorgimentali cari a Mazzini e inquadra il configurarsi di un evento molto importante che cambierà la storia di Venezia. La voce del baritono rumeno Bogdan Baciu nel ruolo di Israele in giacca lilla a fiori di timbro scuro , convincente dà inizio all’opera. Degno di interesse il tenore americano Michele Angelini diplomato in fagotto, da anni in carriera nel repertorio del bel canto dopo la folgorazione dell’ascolto di June Anderson; in giacca azzurra e visiera marrone canta lo sventurato amore per la dogaressa ; lo squillo è gradevole, lineare anche se nelle parti più impervie denuncia mancata tenuta di voce e incertezza di intonazione. La regia di Ricci e le coreografie della Bevilacqua fanno compiere a un mimo e allo stesso tenore durante il canto delle vere e proprie capriole in acrobazia sul ferro dei ponteggi scenici che lasciano perplessi. La dogaressa Elena avvolta in un lungo soprabito azzurro interpretata dalla trevigiana Francesca Dotto ha una voce corposa, tesa, da soprano drammatico, salda nell’intonazione, suggestiva e di temperamento ed il duetto che ingaggia con Fernando è di grande valore artistico ad anticipare i celebri duetti della Lucia di qualche mese dopo. Venendo al ruolo del protagonista, Michele Pertusi , avvolto in un lungo cappotto grigio da generale tedesco con tanto di pietre preziose appuntate sul petto e sul capo un’insolita coppola scura, è un basso autorevole, grave; la sua voce stentorea e ricca di umane sfumature, rende leggibili l’odio covato contro i patrizi e il travaglio pieno d’angoscia per essere sul punto di congiurare contro la Serenissima. “Trema o Steno ! Tremate o superbi!” è il grido di Faliero e Israele che fa venire agli orecchi il celebre duetto tra Macbeth e Banqo del capolavoro verdiano del marzo 1847. La festa in maschera organizzata a casa del Leoni, uno del Consiglio dei Dieci, è una ghiotta occasione per il regista e la coreografa di fare sfoggio di inquietanti maschere con sembianze di pesci e mostri marini in salita e discesa per le note scale delle impalcature. Dopo che la dogaressa riferisce al marito che il patrizio Steno ha tentato di abbordarla, ascoltata anche dagli attoniti Fernando e Israele, nasce un quartetto di rara intensità e la sfida di Steno a Fernando chiude il primo atto. A dare al dramma un risvolto più tetro, il secondo atto apre con un canto del coro “Siamo i figli della notte” proveniente da una gondola in transito sulle acque della laguna ; emerge il canto poetico di un gondoliere : “ Or che in cielo alta è la notte/ senza stelle e senza luna/ te non sveglin le onde rotte/della placida laguna/ dormi o bella, mentre io canto/ la canzone del piacer”. Al chiarore della luna Fernando si abbandona a un canto lirico denso di affetto per l’amata Elena, con la complicità del violoncello solo di grande resa espressiva. Quando il doge, ancora alla festa di Leoni, viene scoperto dai patrizi, dotati di mascherina chirurgica dietro uno specchio tondo, getta la maschera e dichiara apertamente guerra ai senatori e “morte ai dieci”, giunge un grido : è quello di Fernando colpito a morte da Steno. La maestria nelle marce funebri del maestro è fuori discussione ed egli ne regala una assai toccante, che con il tono sommesso di archi e fiati, accompagna al trapasso lo sventurato, reo di contrastato e illegittimo amore. Nell’ultimo atto si consuma il dramma umano e il dramma politico. Il primo riguarda il rapporto tra Faliero e la giovane moglie: rivelatale dal marito l’assassinio di Fernando, esce di senno dal dolore e, tra le lacrime, non riesce più a nascondere al marito il tradimento col giovane nipote. Faliero subito si indigna, la maledice, ma poi pentito, la perdona. La prova dei due cantanti è espressiva e l’autorevole e profonda voce di Pertusi s’integra bene con la veemente e genuina sensibilità della Dotto. Dopo che il Consiglio dei Dieci impone a Faliero di levarsi la corona(coppola) dal capo e gettarla a terra in attesa dell’esecuzione, un rullo di tamburo sancisce la “ fin del traditor”.
Nel silenzio assoluto e irreale del teatro Donizetti vuoto, sfilano prima gli artisti del coro e i mimi, poi i personaggi minori fino ad arrivare ai cantanti protagonisti e al direttore Frizza. L’atmosfera è irreale, imbarazzante. Dopo un rapido scambio di sguardi, parte un applauso, poi un altro e un altro ancora che non proviene dal pubblico che non c’è ma dai cantanti stessi, dai musicisti dell’orchestra che si applaudono gli uni gli altri con gli occhi pieni di emozione e, in alcuni casi come la Dotto, di lacrime vere.
Seconda opera in cartellone è Belisario (21 novembre, ancora con la bacchetta di Frizza), lavoro ancora meno eseguito del Faliero, rappresentato l’anno dopo la celebre Lucia il 1836 alla Fenice. Presentato in forma di concerto, senza distrazioni sceniche, è musica pura che sgorga affascinante nelle ugole di un cast stellare composto da Roberto Frontali, nel ruolo del titolo, Carmela Remigio, Antonina, la figlia Irene di Annalisa Stroppa, Celso Albelo nel ruolo di Alamiro/Alessi e Simon Lim come imperatore. Sin dalla sinfonia dai ritmi rossiniani, l’opera si preannuncia ricca di spunti interessanti. Quella che il partenopeo Salvatore Cammarano ha riordinato nei suoi abili versi è una storia complessa in quanto derivata da tre fonti : Belisaire di Jean Francoise Marmontel, Belisarius di Eduard Von Schenk e Belisar di Franz Holbein von Holbeiusberg con adattamento di Luigi Marchionni. Il risultato del libretto è poeticamente gradevole ma logicamente e storicamente non sempre sostenibile. Si condensa nel titolo dei tre atti : Il Trionfo – L’Esilio – La morte. Dopo le acclamazioni del popolo e della figlia Irene al generale reduce da una vittoriosa campagna in Italia, la moglie Antonina della talentuosa Carmela Remigio accusa il marito di aver fatto uccidere anni addietro il figlio appena nato. Convocato dall’Imperatore e dal capo delle guardie imperiali Belisario viene condannato all’esilio e all’accecamento. Emerge qui l’impeccabile perizia tecnica e il coinvolgimento emotivo della soprano abruzzese. L’ingresso in scena di Alamiro, Celso Albelo del popolo sconfitto, dà l’opportunità a Belisario di concedere la libertà allo schiavo che, per fedeltà e ammirazione, vuol rimanere al suo fianco e questo colpisce il generale che lo adotta come figlio. Frontali sfoggia eleganza nel fraseggio e profonda umanità, mentre nello squillo di Albelo si percepisce la sicurezza e la forza espressiva dei suoi quarant’anni che diviene ardore infuocato alla vista dell’accecamento del generale, ordinato dall’imperatore: “Trema Bisanzio sterminatrice/ Su te la guerra discenderà”. Pagina di accorato lirismo è lo struggente dialogo tra padre e figlia in cui la levigata ed elegante voce di Annalisa Stroppa ben si intreccia con il nobile e paterno canto del genitore ferito e umiliato, consolato di riabbracciare la figlia e di sentire la sua voce. L’accento patetico degli affetti realizzato da Donizetti e Cammarano è diretto e toccante: “Ah se potessi piangere/ di duol non piangerei…/Non son più misero/figlia vicino a te…” e ancora “ e degli occhi che perdei/ tu mi sei più cara ancor…” “ Ah se potessi piangere/ di gioia io piangerei…”. Siamo vicini all’epilogo del dramma che si condensa nel terzo atto. Il primo colpo di scena avviene quando Alamiro, alla testa dei suoi fedeli contro Bisanzio s’imbatte nel generale e, gelato dagli affetti, gli si getta ai piedi svelando a Belisario e a Irene di essere stato abbandonato neonato in riva al mare con al collo una piccola croce . Il vecchio cieco ed Irene capiscono che il giovane è ad essi figlio e fratello e tutti si uniscono in un abbraccio . Alcuni istanti più tardi il generale viene accidentalmente ferito a morte da un soldato nemico e, ultimo colpo di scena, la moglie Antonina nel vedere l’imperatore venire verso di lei , gli rivela di avere accusato ingiustamente di parricidio e di fellonia il marito innocente. La confessione della donna è struggente e mostra la grandezza tecnica e interpretativa del soprano. Attraverso i suoi occhi, i suoi gesti, la sua voce fa rivivere nell’animo di tutti i lontani spettatori l’eterno tema di amore e morte e li fa sentire vicini come fossero presenti in teatro. Carmela Remigio non interpreta Antonina. E’ Antonina! Nei suoi occhi ti pare di rivivere l’opera intera. Dentro l’immane tragedia, chiede al marito tradito il perdono che il generale non le darà per il sopraggiungere della morte : “Egli è spento, e del perdono/ la parola a me non disse/ Di mia voce udendo il suono/ forse in cor mi maledisse…” “Ah toglietemi la vita/ che la morte è un ben per me” grida Antonina, divorata dal rimorso; al pari di un’attrice della Grecia Antica, si lascia sopraffare dal dolore da grande eroina.
Al termine dello spettacolo cala ingrato e ingiusto il silenzio. La scommessa del Teatro Donizetti col suo Maestro e i suoi melomani è vinta!