Si è concluso nelle scorse settimane il Festival di Martinafranca che ha proposto anche quest’anno alcuni appuntamenti meno consueti e di richiamo. Qui di seguito la testimonianza del nostro collaboratore Marco Pescetto.
31 luglio – Haydn, La Creazione
Scene Tiziano Santi ; Costumi Gianluca Falaschi, Giammaria Sposito – Coreografie Mattia Agatiello – Gabriele,Rosalia Cid ; Uriele, Vassily Solodkyy; Rafael ,Alessio Arduini; Adamo, Jan Antem; Eva, Sabrina Sanza – Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, Coro Ghislieri – Direttore Fabio Luisi
Nella poliedrica natura di musicista la cui cultura austriaca e ungherese si fondeva a delineare una figura affacciata , da un canto, alla scuola napoletana di Porpora, suo maestro in gioventù, dall’altro alle molteplici commissioni dei Principi Esterhazy che gli richiedevano opere, concerti e musica sacra presso cui era a servizio, Franz Joseph Haydn nella maturità era stato spinto dal suo giovane amico W.A. Mozart ad entrare nella Massoneria, onde allargare ancora di più i suoi vasti orizzonti a conoscenze e ambienti che gli avrebbero portato fama e compensi. Già nel 1785, poco dopo aver indossato il “grembiulino”, la Loggia Olympique di Parigi gli aveva commissionato delle sinfonie e, sempre attraverso gli stessi canali, avrebbe conosciuto a Londra l’impresario teatrale Johann Peter Salomon, violinista di Bonn portatosi nella città del Tamigi che, attraverso il Direttore del teatro di Haymarket Gallini gli avrebbe commissionato un’opera e lo avrebbe pure invitato alle Hannover Square Rooms per dirigere concerti e presentare sue composizioni. La musica di Haydn era così apprezzata dal pubblico che gli valse la Laurea Honoris Causa dell’Università di Oxford. Negli anni novanta del settecento il musicista rimase conquistato dagli oratori di Haendel “Messiah“e “Israel in Aegypt” durante le celebrazioni dedicate al celebre compositore. Fu ancora Salomon a chiedergli di comporre un oratorio ma Haydn rifiutò. Nonostante ciò, tornato a Vienna, sentì il bisogno di cimentarsi con il genere e iniziò a lavorare a “La Creazione”. Uomo religioso, l’anziano maestro impiegherà due anni per portare a termine il lavoro, che si rivelò un poema epico, pietra miliare della musica sacra della storia della musica. E’ proprio “La Creazione” a inaugurare il 47 Festival della Valle d’Itria. Il libretto del barone Van Swieten tratto dalla Genesi della Bibbia e dal Paradiso perduto di Milton è presentato nella versione italiana di Dario del Corno e rivista dal figlio Filippo. L’oratorio si articola in due parti: la prima riguarda i primi sei giorni della creazione e la seconda Adamo ed Eva. L’opera diretta da Fabio Luisi è presentata in forma scenica con la regia di Fabio Ceresa il quale immagina il Caos primordiale come una massa informe di corpi e materiali dalla quale emergerà un grande uovo nero , che, dopo il fragore di un rullare di timpani, si schiuderà facendo apparire simultaneamente a una luce abbagliante la figura di un piccolo Dio , origine di ogni forma di vita. Questa luce si rifrangerà nei sei colori dell’iride che prenderanno forma nei sei giorni della creazione: ogni giorno un colore diverso. I giorni per altro vengono caratterizzati con le varie forme d’arte: poesia, musica, pittura, architettura, danza e scultura con mimi di diverso colore. Suggestivo ad esempio il muoversi sinuoso di una danzatrice con abito di color verde che simboleggia lo scorrere dell’acqua; la prima giornata dedicata allo spazio, all’architettura è simboleggiata dall’uovo che significa perfezione, fecondità, armonia; la quarta giornata dedicata al tempo è simboleggiata da un sole vergato da un pendolo che, oscillando indica lo scorrere delle ore; ai pesci e agli uccelli è abbinata la danza e all’uomo la scultura. Al termine, uomo e donna, frutti più nobili del creato, non sono permeati dal peccato e dalla morte ma vivono una vita gioiosa accanto a coppie di femmine e maschi che si amano senza pregiudizi e inibizioni. Il regista, solidale allo spirito di Haydn, figlio del secolo dei lumi, vive la giocosità e libertà dell’uomo senza appesantirla dalla maledizione del peccato originale della morale cattolica. La concertazione di Luisi risolve con raro approfondimento del dettaglio della partitura e grande intensità ed eleganza la complessa struttura dell’opera.
1° agosto – A. Scarlatti, Griselda
Dell’opera Griselda si conoscono non meno di venti versioni teatrali compreso Massenet, su libretto di Apostolo Zeno; la versione di Alessandro Scarlatti debutta a Roma il 24 gennaio 1721 ed è l’ultima opera del maestro quattro anni prima della morte avvenuta a Napoli. Nominato Cavaliere da papa Clemente XI per “Eximia musicae peritia” , il musicista siciliano porta al Teatro Capranica nella stagione di Carnevale questo dramma per musica tratto dall’ultima novella del Decamerone del Boccaccio. Narra la storia di Griselda giovane di umili origini scelta come sposa dal re di Sicilia Gualtiero. L’abnegazione dell’una e l’insicurezza dell’altro stigmatizzano la vicenda che si dipana nelle numerose prove richieste dal re alla donna per saggiare la sua fedeltà. Il corteggiamento del vassallo Ottone, il ripudio del sovrano e infine la decisione di questi di preferirle la figlia Costanza, non faranno recedere di un millimetro Griselda che giurerà strenuamente la fedeltà al marito. Solo a questo punto il sovrano, vittima della sua insicurezza e del giudizio del popolo che riteneva sconveniente che il re fosse sposo di una contadina, comprende la grandezza della sua sposa , ritenendola degna del ruolo di regina. Ciò che colpisce in questo lavoro di Scarlatti è la bravura di Carmela Remigio, inarrivabile protagonista, sicura nel fraseggio, a suo agio nel repertorio barocco pur venendo dal bel canto, di spiccata capacità scenica e interpretativa; accanto a lei il controtenore Raffaele Pe di un’autorevolezza e disinvoltura nell’affrontare le insidiose parti di coloratura che gli valgono altrettanti e calorosi applausi a scena aperta. Attenta e rigorosa la lettura del direttore greco George Petrou, collaudato interprete del barocco italiano. La regia di Rosetta Cucchi traspone la vicenda in un passato più recente, nella Sicilia post-unità d’Italia del primo Novecento. Le è più facile forse incarnare nel personaggio di un nobile siciliano di quel periodo le angosce recate da ciò che la gente di Sicilia, bigotta e crudele, dice di lui che ha sposato una popolana. La regista peraltro aggiunge un particolare inquietante che porta in scena: la vicenda del “panno freddo”. Nella Sicilia di un secolo addietro, scopre una pratica agghiacciante effettuata fino agli anni Cinquanta: cioè un panno bagnato di acqua gelida in cui venivano avvolte le neonate femmine subito dopo il parto affinchè morissero. Questo era motivato dal fatto che le femmine, a differenza dei maschi, comportavano grosse spese in quanto per sposarle o mandarle in convento occorreva la dote che le famiglie non potevano o non volevano sostenere. Alla fine del dramma, quando il re riterrà Griselda sovrana, degna di stare al suo fianco, la gioia della protagonista non sarà punto questa, ma quella di riabbracciare la figlia Costanza, che temeva di avere perduto. La visione della Cucchi è stata vincente, l’orchestra “La lira di Orfeo” all’altezza. Applausi convinti
3 agosto – N.Porpora, L’Angelica
In un clima decisamente arcadico, ma trasposto da Falaschi presso un tavolo imbandito di supposte succulenti pietanze, i personaggi tutti di genere femminile eccetto il vecchio Titiro, vivono storie di amori contrastati e appassionati. Sono tre gli esordienti in questo lavoro: Pietro Metastasio, il padre di tutti i poeti del melodramma qui al suo primo libretto, Carlo Broschi più noto con l’appellativo di Farinelli, quindicenne al primo debutto e, venendo ai nostri tempi, Gianluca Falaschi celebre e stimato costumista, qui alla prima regia teatrale. Nicola Porpora, l’unico ad avere già esordito a Napoli con Agrippina nel 1708, lasciando la natia Napoli intorno al 1725 per recarsi prima a Vienna dove l’Imperatore non gradiva gli abbellimenti delle sue opere e poi al Conservatorio degli Incurabili di Venezia e successivamente a Dresda e a Londra dove si disputò con Haendel la leadership del mondo dell’opera, non potè diventare un caposcuola della scuola napoletana di cui a pieno titolo faceva parte. Insegnante di canto ebbe come allievi Farinelli, Caffarelli e molti altri conducendoli alla fama , dando del filo da torcere ad Haendel; nondimeno ebbe come valletto ed allievo F.J. Haydn. Cifra caratteristica dello stile di Porpora è una scrittura fondata su un canto virtuosistico di coloratura basato sull’abbellimento. La tecnica dei castrati, che prevedeva la ripetizione dell’aria con l’aggiunta di abbellimenti e improvvisazioni non predeterminate in pratica costituiva una vera ri-creazione dell’opera stessa che diveniva perciò irripetibile. E’ scontato che, a seconda delle abilità del cantante che il compositore ben conosceva, venivano messe in risalto le capacità canore più acrobatiche ed uniche per stupire. Tornando ad Angelica, anche se parrà un luogo comune, il protagonista della vicenda è l’amore. In scena due coppie, Orlando e il vecchio Titiro. Angelica, compagna di Orlando è attratta dalla bellezza di Medoro e, facendo credere al paladino che nulla tra loro è cambiato, s’intrattiene teneramente col nuovo personaggio. D’altro canto la bella Licori e il buon Tirsi si amano di un amore semplice e sincero. Fuori posto è l’ingenuo Orlando che, credendo l’amata ancora sua non capisce della nuova relazione e dapprima si altera e poi s’infuria. Ma contro un amore non corrisposto non c’è partita. Scoperta la realtà, l’amore tra Orlando e Angelica crolla come un castello di carte e nell’aria di Orlando la furia sfuma nella malinconia. La fine e attenta concertazione di Federico Maria Sardelli raggiunge momenti di rara bellezza specie verso la fine della seconda parte quando dirige il dialogo tra il Medoro di Paola Valentina Molinari e il violoncello solo e poco dopo quando nella parte strumentale dell’orchestra esprime con sensibilità e intensità i conflitti e le tensioni degli amanti, dando pieno risalto all’autentica bellezza della musica di Porpora. Suggestiva l’idea di Falaschi quando nella seconda parte porta ognuno dei protagonisti a sollevare il coperchio delle zuppiere presenti sul tavolo a prendere tra le mani una maschera e indossarla come a significare che in amore come nella vita ciascuno è chiamato a recitare una parte cui nessuno può sottrarsi, neanche Orlando interpretato magistralmente da Teresa Iervolino che dopo averla presa per ultima e ripiegata la vedrà scoppiare tra le mani.