A pranzo con Verdi

Fra i tanti sogni che può nutrire un critico musicale c’è certamente quello delle interviste impossibili a grandi protagonisti della storia. E allora giocando con l’immaginazione e riprendendo laddove possibile citazioni reali, ecco uno scoop fantasioso, una intervista a Giuseppe Verdi negli anni immediatamente successivi al Falstaff.

L’invito mi è stato rivolto da Giuseppe De Amicis, l’amico genovese di Giuseppe Verdi, il devoto tuttofare che quando il Maestro è lontano dal mar Ligure provvede ai suoi affari, controllando che l’appartamento del Palazzo del Principe sia in ordine e che la pasticceria Romanengo invii con puntualità le sue leccornìe in quel di Sant’Agata.

E a Sant’Agata stiamo appunto arrivando noi, ospiti a pranzo del Maestro, l’ingegner De Amicis e il sottoscritto, giovane musicista al mio primo incontro con il Maestro.

Varcare il cancello del podere mi fa una profonda impressione: una casa elegante e austera che non ha perso la sua originaria struttura di casa colonica, ma l’ha arricchita con alcuni elementi aggiuntivi: due ali in facciata con terrazza e nel retro le serre, la cappella, le rimesse. Il parco, accuratissimo abbraccia la casa: noto un laghetto e un po’ più in là la collina della ghiacciaia. Davanti alla casa ci viene incontro la signora Strepponi, la moglie del Maestro. Incurvata, vestita di nero, un portamento nobile e semplice insieme.

«E’ un piacere averVi qui, caro amico» esordisce a De Amicis.

L’ingegner De Amicis

«Il piacere è nostro, gentile Signora. La Vostra casa è sempre più bella».

«Il buon De Amicis sa quanto ci è costato crearla – dice la signora rivolgendosi a me – per rendere la villa una casa un po’ meno colonica, Verdi si è trasformato in architetto e non sto a raccontarvi, durante i lavori di ristrutturazione i balli dei letti, dei comò e di tutti i mobili. Vi basti sapere che, eccettuato in cucina, in cantina e nella stalla, noi abbiamo dormito e mangiato in tutti i buchi della casa. E il giardino! Si è partiti da un piccolo appezzamento di terreno, “il giardino della Peppina”, poi si è esteso per divenire il “suo” giardino!»

«Non pensate che qui io abbia trovato tutto in ordine come lo vedete adesso». La voce di Verdi ci sorprende alle spalle. Il Maestro sbuca da un viottolo e ci raggiunge con la baldanza di un giovanotto a dispetto dei suoi ottant’anni. Vigorosa stretta di mani: «E’ tutto frutto di fatiche di anni. Quando mi arrise la fortuna e fui in grado di metter su casa nelle più belle zone della mia patria, acquistai questo terreno allora trascurato e deserto, sul quale tutto era brutta natura. Abbiamo coltivato, piantato i frutteti, sistemato la casa, costruito i granai, eretto argini per fronteggiare i capricci del Po che più di una volta ci ha distrutto tutto. Ma ora sono soddisfatto».

Guardiamo con ammirazione il verde, gli alberi, i fiori: «Io amo molto i fiori, ma per averne di belli abbisogna un Gran Giardiniere…. Io detesto tutte le tirannie e specialmente le domestiche. Ora i Gran Giardinieri, i Gran Cuochi, i Gran Cocchieri sono i veri tiranni d’una casa. Con questi voi non siete più padrone di toccare un fiore del vostro giardino, di mangiare un semplice uovo coll’insalata, ecc. ecc. No, no: di tiranni in casa basto io solo e so ben la fatica che io mi costo! Per altro io sono un tiranno che finisce a far sempre quello che non voglio… Ne volete una prova? Io scrivo opere…. È la cosa che vorrei far meno di tutte!»

Ridendo, il Maestro ci fa segno di entrare in casa e ci conduce nella sala da pranzo.

Sulla tavola già allestita sono ben visibili le posate dell’Orfevrerie Christofle di Parigi con incise la lettera V sormontata da due G e l’elegante servizio di Sevres bianco e turchese filettato d’oro.

«Caro giovane – mi dice il compositore facendomi segno di accomodarmi a tavole dove al centro troneggia un vassoio generoso di salumi e di mostarda di Cremona, la preferita dal Maestro – Lei arriva da una città, Genova, che mi è cara:  amo la riservatezza dei suoi abitanti che vivono e lasciano vivere e amo la sua cucina».

«Il Maestro – osserva De Amicis – è ghiotto di gnocchi conditi con il basilico».

«E non solo. Trovo straordinario il vostro cappon magro. E ricordo con grande piacere quella volta in cui l’amico Serafino De Ferrari venne a Palazzo del Principe a cucinarmi le lumache. Che serata splendida. A Genova mi piace girare per le strade e andare nei negozi. Le racconto un aneddoto. Una mattina vado a comprare del pesce in “Chiappa”, la pescheria vicino a piazza Cavour. Il pesciaio mi vede, mi riconosce e allora tutto soddisfatto mi annuncia che la sera avrebbe cantato come comprimario nell’Aida la parte del Re. Io me ne compiaccio e dopo aver dato un’occhiata ai prezzi sul banco, gli rispondo: “Complimenti, però scommetto che guadagna molto di più qui che sul trono del Carlo Felice”

A questo punto, Verdi stappa una bottiglia di vino rosso: «E’ del nostro – dice con un certo orgoglio – produciamo con grande fatica vino rosso e vino bianco».

Assaggio e lo trovo buonissimo:  «Il Maestro non vuole si sappia – interviene De Amicis – ma una parte della sua produzione la regala all’Ospedale di Villanova….».

«Non si deve mai dimenticare – tagliò l’artista – chi ha meno e soffre. Io quello che ho me lo sono conquistato con il sudore e  non dimentico le mie origini. Il vino è una mia passione… ».

«Il Suo amore per il vino – mi azzardo, gettandomi in una rischiosa citazione – è del resto evidente per come ne parla nella Sua ultima splendida opera. Falstaff sorseggiando un bicchiere di vin caldo, dopo essere emerso dal Tamigi, bagnato e semiaffogato canta la più bella esaltazione del bere che io abbia mai sentito: “Il buon vino sperde le tetre fole dello sconforto, accende l’occhio e il pensier, dal labbro sale al cervel….

«… e qui risveglia il pic­ciol fabbro dei trilli – mi interrompe Verdi sorridendo – bravo, vedo che ha ascoltato con attenzione. Prosit»

Nel frattempo erano scomparsi i piatti dell’antipasto ed era stato servito il risotto, nella cui preparazione Verdi era considerato maestro insigne.

-Maestro è vero che Lei fu bocciato al Conservatorio di Milano?

«E’ vero e fu una grande umiliazione per me, anche se, a onor del vero, debbo dire che i maestri che mi avevano scartato, tutti i torti non li avevano. Io ero per Milano uno straniero, venivo d’oltre confine e il regolamento della scuola parlava chiaro, stabiliva la priorità dei milanesi. E poi suonai il pianoforte abbastanza mediocremente. Non sono mai stato un grande pianista…Credo comunque che i milanesi se ne siano pentiti e non mi stupirei se alla mia morte decidessero di intitolare l’Istituto alla mia memoria…».

La conversazione viene interrotta dall’arrivo della seconda portata, una deliziosa Spalletta di San Secondo.

-Maestro si dice che Lei abbia la ricetta perfetta per cucinarla.

«Il segreto sta nella cottura. Si deve mettere in acqua tiepida per circa dodici ore, per levargli il sale. E’ una operazione fondamentale. Dopo la si mette in altra acqua fredda e si fa bollire a fuoco lento per circa tre ore e mezzo, e forse quattro. Non si deve avere premura. Per sapere se la cottura è al punto giusto, si fora la spalletta con un curedents e se entra facilmente la spalletta è cotta. Si lascia raffreddare nel suo brodo e si serve».

-Maestro i nostri teatri sono in crisi, c’è chi invoca il modello straniero dei teatri di repertorio. Che ne pensa?

«Ottima cosa sarebbe il Teatro a repertorio, ma non lo credo realizzabile. Gli esempi dell’Opéra e della Germania hanno per me pochissimo valore perché in tutti questi teatri gli spettacoli sono deplorabili. All’Opéra splendida la mise en scene, superiore per esattezza di costume e di buon gusto a tutti i Teatri, ma la parte musicale pessima. Cantanti sempre mediocrissimi, orchestra e coro svogliati e senza disciplina. Io ho sentito a quel teatro spettacoli a centinaia e mai e poi mai una buona esecuzione musicale. Ma in una città di 3 milioni di abitanti vi sono sempre duemila persone per riempire la sala anche con cattivo spettacolo. In Germania le orchestre e i coro sono più attenti e coscienziosi: eseguiscono esattamente e bene; malgrado ciò io ho visto a Berlino spettacoli deplorabili. […] A Vienna  le cose sono migliori dal lato dei cori e orchestra (eccellentissimi) . Io ho assistito a diversi spettacoli ed ho trovato esecuzione delle masse buonissima, mise en scene mediocre, cantanti al di sotto del mediocre, ma lo spettacolo ordinariamente costa poco, il Pubblico (lo mettono all’oscuro durante lo spettacolo) dorme e s’annoia, applaude un po’ alla fine d’ogni atto ed alla fine dello spettacolo se ne va a casa senza disgusto e senza entusiasmo. E ciò può andar bene per quelle nature nordiche; ma porta un po’ uno spettacolo simile in uno dei nostri teatri e vedrai che sinfonie ti comporrà il Pubblico!»

Il pranzo volge al termine. Il caffè, in casa Verdi, si prende rigorosamente sotto il porticato all’aperto. Tradizione rispettata anche con noi. Ma prima di congedarmi, ho ancora una curiosità da soddisfare….

“Nabucco” e le opere degli anni Quaranta testimoniano il Suo impegno politico che tuttavia non si è limitato all’attività musicale ma l’ha portata addirittura a candidarsi in Parlamento…

«Vede, eravamo in tanti a credere in una Italia libera e indipendente. Io ero rimasto impressionato sin da ragazzino a vedere giovani rischiare la vita nei moti rivoluzionari. Il Quarantotto fu per tutti  un momento esaltante.  Ebbi contatti con Mazzini, per lui scrissi un Inno su parole di Mameli. Grande figura Goffredo: come si fa a morire a 22 anni per un ideale? Eppure lui andò sulle barricate a difendere Roma, mettendo in gioco la propria vita. “Stringiamci a coorte, siamo pronti alla morte” aveva scritto nel suo “Canto degli Italiani” che per me dovrebbe essere il nostro Inno nazionale e non a caso l’ho inserito nel mio Inno delle Nazioni.  Mameli, dicevo, fu coerente fino alla fine. I giovani sono sempre una risorsa meravigliosa, credono in un futuro migliore. Siamo noi vecchi che troppo spesso li deludiamo, togliendo loro i sogni. insomma, divenne naturale per me, impegnarmi direttamente…»

 -E’ forse per questo che nel 1859 Lei ha acquistato di sua iniziativa una partita di fucili, da destinarsi alla Guardia Civica di Busseto….

«Il mio scopo era permettere alla mia città di difendersi.. ».

Due anni dopo si è candidato alle elezioni per il primo Parlamento italiano…

«Tutta colpa del conte di Cavour che un giorno mi scrisse una bella lettera chiedendomi di candidarmi. “Essa – mi scrisse – contribuirà al decoro del Parlamento dentro e fuori d’Italia…..”. Io andai a Torino in quei mesi come facevano tanti. Ma mentre gli altri cercavano appoggi per essere eletti, io volevo convincere Cavour a desistere. Tentativo inutile, dovetti accettare e il 1ì8 febbraio 1861 sedetti nel primo Parlamento italiano vicino a Quintino Sella….

In effetti, Maestro, la Sua riservatezza è stupefacente. Anche oggi chiunque farebbe carte false per essere eletto deputato o senatore… Cosa l’allontanò poi dalla politica attiva?

«Si facevano tanti discorsi, e si concludeva poco. La nostra classe politica era incapace di capire i veri problemi della società. Vede, il mio può apparire il discorso di un qualunquista. Ma… io non parlo di Rossi, di Bianchi, di Neri… Guardo la storia: quello che domando  è che i reggitori della cosa pubblica siano Cittadini di grande ingegno e di specchiata onestà….».