L’evoluzione dell’arte: qualche riflessione

Stiamo vivendo un’epoca di distrazione. Distrarsi deriva, etimologicamente, da trarre  e – dis, prefisso che significa “da una parte e dall’altra”. Viviamo immersi, strattonati da informazioni, da eventi, da “fatti” (participio passato del verbo fare. I fatti sono “costruiti”). Siamo distratti e distrattamente procediamo nel mondo. Ci portiamo in giro  definizioni e opinioni raffazzonate distrattamente. Spesso (anzi quasi sempre) parliamo senza nemmeno sapere di che cosa. Basta soffermarsi con un po’ di scetticismo (da skepsis, attenzione) su un qualsiasi argomento, per scoprire di avere tanto da…scoprire. Scoprire è parente di aprire. Aprire la mente a un pensiero critico. Un pensiero  che i problemi  li analizza e se ne pone di nuovi, ma  che non li risolve necessariamente. A risolvere enigmi sono capaci tutti; persino una macchina e spesso meglio di noi. Per porsene ci vuole qualcosa in più che nemmeno il più raffinato computer, per ora, ha.

Parliamo di arte. Problema:  che cosa è l’arte? Nel dare de-finizioni si rischia di ridurre un argomento, limitarlo, talvolta finirlo sul nascere. L’arte è indefinibile, semplicemente perché arte è tutto: considerando in ordine sparso opere e artisti, si possono ascrivere ad arte dai graffiti del neolitico a Marcel Duchamp; dalla tragedia attica al Colosseo; da Charlie Chaplin a Andy Varol; da Wagner a Fabrizio De André; dal jazz a Beethoven; da Dario Fo a Hitchcock, da Michelangelo all’autore anonimo dei murales, a chiunque  fotografi il solito tramonto, o scriva una poesiola o dipinga il suo paciugo su una tela, eccetera. L’arte è il sangue nelle vene della storia del mondo, come ha scritto il critico Francesco Bonami. Poi, ma solo in seguito, all’arte si può applicare il  concetto di valore che ne screma i contenuti;  questo tuttavia è tutt’altro discorso, altrettanto potente e forse ancora più complesso.

Ecco, per intravvedere i profili del problema, basta pensare che il cesso capovolto di Duchamp ha un valore paragonabile (anche se non identico) alla Monna Lisa. A chi afferma che chiunque può capovolgere un cesso, si potrebbe rispondere che moltissimi  potrebbero riprodurre la Gioconda, con un po’ di pazienza, semplicemente copiandola o addirittura ricalcandola. Lo hanno già fatto; si chiamano copie, o falsi.

Ma solo in due  hanno fatto gli originali.

Se vogliamo capire qualcosa del cesso di Duchamp, della Gioconda e in genere dell’arte, possiamo ripercorrerne brevemente lo spirito attraverso la storia. Per brevità possiamo considerare soltanto chi ne ha meglio stigmatizzato il concetto: ossia Platone, Kant, Hegel e Schopenhauer.

Platone ritiene irrinunciabile per l’arte una certa regola, misura. Egli bandisce ogni arte che non corrisponda ad un metro, ad un canone, ma, facendo leva sull’emozione soggettiva, manifesti i propri contenuti in maniera smisurata,   non  presentandoli in modo coerente, determinato, definito;  non dica  QUALCOSA, alètheia, cose vere. In questa critica Platone lascia aperta la via positiva di un’arte che esprima numeri, misura e  in una forma commisurata delle sue parti; quindi il bello sarà l’armonia, il rapporto,  il numero, il colore, quello che  Nietzsche chiamerà l’apollineo.  Sotto certi aspetti anticipa un’estetica di tipo mistico, per esempio neoplatonico, dove il bello era la luce, lo sfondo d‘ oro dietro l’immagine ( Plotino). E tutta l’arte rinascimentale.

Per Hegel l’arte diventa essenziale (ossia portatrice di essenza) attraverso i sensi con cui  l’opera si manifesta e proprio per questo diventa verità ( l’arte, non il rappresentato dall’opera artistica). E’ una considerazione eminentemente dialettica. La verità e l’essenzialità  dell’arte consistono nel rendere evidente, in carne e ossa,  proprio questa pittura, questa scultura ecc. Il rappresentato dimostra la certezza della cosa, in un certo senso ne fa fede. Ma, ci domandiamo,  abbiamo ancora bisogno  che la verità si manifesti in maniera sensibile attraverso l’arte? Ovvero è necessario che l’arte manifesti la verità, la racconti? O forse questa necessità dell’apparire di  verità attraverso il sensibile, è già  diventato concetto per altre vie, rendendo quindi superflua l’arte? La risposta è si, perché è sorto un sapere che  fa proprio il concetto ed esprime la verità direttamente e con molta forza. Questo sapere è la scienza.  Che cosa ne è dunque dell’arte nell’epoca della scienza? C’è necessità delle forme artistiche nel mondo della scienza? Continua l’arte ad essere necessaria come espressione della verità? O meglio, esiste qualcosa che al di fuori dell’arte non si può mostrare?  O ancora, esiste qualcosa alla cui espressione il linguaggio scientifico non sia adatto, o sufficiente? Se la risposta è si, occorre che l’arte si sposti e da sensibile diventi intellettuale. La prospettiva dell’arte volta solo ai sensi, ingenua, ossia semplice, rappresentativa, è superata. L’arte non ha più niente da raccontare, da insegnare; è  diventata  ricerca. Un’arte che scava, che indaga come  la scienza; sebbene non col metodo, bensì con il fine della scienza e  pertanto della scienza deve tener  conto. E allora, ci domandiamo, in che modo la scienza ha trasmutato la certezza, la Cosa? Che avrà mai trovato la scienza di nuovo sulla e riguardo alla Cosa? La risposta è complessa, ma si può sintetizzare così; essenzialmente la scienza dice che la Cosa  è energia,  luce,  qualcosa di immateriale; non  più soltanto un corpo totalmente solido, materia. Qualcosa che, entro certi limiti, sfugge persino all’osservazione ( Heisemberg), figuriamoci alla rappresentazione!  Allora l’arte  non può non riconoscere questa desostanzializzazione  della Cosa, e quindi della realtà, che interviene in ogni campo . L’arte ingenua, rappresentativa, può anche rimanere, ma non può più essere la sola. Ecco quindi sorgere  la grande astrazione, il venir meno di ogni disciplina ( da disco, imparo ) di ogni didattica ( dalla radice dak, col senso di mostrare da cui didaktòs, che può essere insegnato). L’espressione artistica non più come forma mimetica, ma come manifestazione astratta, ossia tratta fuori, ex-tratta, da ogni realtà e da ogni fine,  desostanzializzata,  potentemente presente nella grande arte contemporanea. Schopenhauer lo aveva capito  perfettamente, anche se soltanto nell’ambito della musica, come peraltro anche Nietzsche. Nasce la critica di ogni idea di mimesi, di rappresentazione. L’arte diviene  inutile, ma riesce a rimanere necessaria. Entra la convivenza del concetti di  inutile e necessario al tempo stesso, in una delle grandi aporie del pensiero contemporaneo che verrà intuito da Baudelaire e troverà compiutezza nell’esistenzialismo di Sartre e non solo. Un formidabile movimento di astrazione disinteressata.  Arte dunque, e però, come e con disinteresse. L’interesse è essere inter, cioè essere dentro, in mezzo alla cosa per trarne senso, fine, dominio, arché. Si impone l’arte astratta che quindi è anche arte an-archica ( cioè priva di arché), l’arte che ricerca  nuovi paradigmi, quale è tutta l’ arte di avanguardia. Ci si ricollega al Sublime di Kant, inteso come forma che eccede il rappresentabile. Sublime come cosa che sta fuori  dal limite (sub-limen), ciò la cui essenza sia oltre i limiti dell’esprimibilità del linguaggio. La parola viene a mancare. L’arte mostra allora quello che la parola ( il verbo e, più estesamente,  il logos, la logica) non può mostrare. Arte non più di-mostrativa. Si entra  nel regno germinale della parola, regno che la scienza non può raggiungere, perché legata ad un linguaggio, ad una logica evoluta e ben definita. L’arte diventa inutile, ma non possiamo farne a meno, perché rimane, anche se diversamente, necessaria. Se ne facessimo a meno, non ci trascenderemmo più. O meglio, ci trascenderemmo lo stesso, ma attraverso la tecnica che è figlia della scienza e quindi del particolare, non dell’assoluto, del tutto. L’arte è diventata, ancora una volta, anzi è rimasta, trascendenza, ma è salita (o discesa a seconda dei gusti) a trascendenza pura, assoluta. Adesso e ormai, per fare questo, ha dovuto rinunciare alla rappresentazione, all’immagine, alla mimesi.  Può  esprimere soltanto (soltanto?) l’Idea. La cosa, l’ente, è appannaggio della scienza; la comunicazione è gestita dalla tecnica. Il cesso decontestualizzato, quindi astratto  (tratto fuori dalla sua funzione tecnica di cesso)  non è più cesso, ma idea.  E’ diventato Arte.