Scienza, Fede e Teatro

L’assegnazione del premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi ha, tra le altre cose,  riproposto  la  disputa fra scienza e fede. Il fatto che un dibattito torni spesso alla ribalta, al di la dei paradigmi cognitivi, delle correnti culturali o politiche, o semplicemente delle mode, indica che probabilmente una soluzione  non c’è, o, se c’è, è di difficile definizione. Forse è proprio dalle definizioni che occorre partire, anche osservando che, specialmente nella stampa divulgativa di quotidiani e periodici, nonché in televisione e nei cosiddetti social, si coglie che sulle definizioni di scienza e fede, non corrono idee chiare  e forse nemmeno idee.

Da una parte infatti capita di imbattersi in presupposti che fanno della scienza una specie di Assoluto, una forma culturale che sarebbe quasi sinonimo di civiltà o addirittura di salvezza, al punto da non lasciare spazio ad altre forme di sapere. Tutto ciò si chiama scientismo ed assurge ad una posizione di  vera e propria religione. Senza considerare d’altronde (solo per citare un esempio di attualità) che si ascrivono alla parola scienza significati spesso a vanvera, come quando si sentono   medici che si autodefiniscono scienziati, senza sapere che non lo sono, perché la medicina non è una scienza, ma una tecnica, seppur basata sulla scienza, come peraltro quasi tutte le tecniche.

Dall’altra parte (ossia sul fronte della fede) ci si àncora ad immagini divine o divinatorie che non si discostano  un pelo dal mito, ma alle quali si attribuisce la qualifica di  verità, posizione che si demolisce da sola o che, per sopravvivere, deve restare ottusamente aggrappata a se stessa.

Per cui, quando in seguito ad un premio di grande, anzi di massimo prestigio come il Nobel per la fisica ( che è una scienza) si scava nella persona del vincitore e si scopre che è ateo, entrambe le fazioni insorgono, da una parte attribuendo a ciò un ulteriore  carattere per la scienza di  ineluttabile rifiuto di ogni divinità, e dall’altra cercando di screditare, per quanto  sia possibile, quantomeno una particella del mito nascente, enumerando da un lato tutti gli scienziati credenti che vengono in mente e, d’altro lato e più prosaicamente, rinvangando posizioni trascorse, sia pur lecite,  ma forse discutibili o di debole gusto e senza dubbio facilmente attaccabili (ma altrettanto facilmente difendibili) come la petizione firmata qualche anno fa da Parisi su Benedetto XVI all’inaugurazione dell’ anno accademico alla Sapienza. Oppure  ancora nominando un celebre maestro del premiato scienziato che si dichiarava credente e cattolico e che avrebbe meritato a sua volta il Nobel per la fisica, insinuando che gli sia stato negato proprio in virtù della sua posizione religiosa e aggiungendolo  ad un elenco di celebri e celebrati scienziati credenti. Posizione faziosa, anche se è innegabile che una certa connotazione politica il premio Nobel  l’ha sempre avuta.

Ora non  si può qui e adesso addentrarsi in questa disputa spostandola su livelli più consoni alla grandezza dei protagonisti e degli argomenti. Ma per lo meno cercare di definirne un po’ meglio le basi, bé, questo si, è possibile. Come si concilia dunque il fatto che di due fisici della materia di livello estremo e inoltre della stessa scuola, l’uno abbia fede e l’altro no? Certo, ognuno ha la sua propria storia individuale su cui non si può discutere. Ma, al di la dei percorsi personali, qualche considerazione generale è lecito farla.  Innanzitutto c’è fede e fede. C’è la fede in Gesù bambino e c’è la fede di Sant’Agostino, di Cartesio, di Pascal , di Kierkegaard, tanto per citare solo  qualcuno fra i   grandi della storia  che, ognuno a modo suo, ebbero fede.

Giacomo Leopardi

E, al pari, c’è l’ateismo di Leopardi, di Nietzsche, di Schopenauer e di innumerevoli altri. Senza contare  Marx e gli empiristi e logici inglesi, anche se si tratta di  ateismi ancora un po’ diversi dai primi. Poi però c’è  l’ateismo delle osterie livornesi ed è purtroppo forse il più diffuso. Dove sta dunque la differenza fra queste diverse fedi e i vari diversi ateismi? Io credo che sia essenzialmente nel metodo con cui entrambe, fede e non fede, sono raggiunte, e principalmente sulla consapevolezza e  senso della trascendenza umana sulla quale si devono basare e che non può essere negata, basta guardarsi intorno. La tecnica stessa è trascendenza (per lo meno una porzione di trascendenza) e ce l’abbiamo sotto gli occhi e in mano ogni giorno. Anzi, lo stesso lavoro è trascendenza. Ora c’è chi si accontenta della fede che gli viene proposta bella e pronta già confezionata  fin da neonato, e con quella andrà avanti acriticamente per tutta la vita. Crederà in Gesù bambino, o in Geova, o in Allah, nelle madonnine, o altro; non c’è niente di male, basta non imporlo a nessuno e a nessuno far del male. C’è poi chi non gliene frega niente di spingere sulla trascendenza; si accontenta del lavoro quotidiano, della tecnica e magari del denaro, o del calcio, senza nemmeno sapere se c’è e che cosa sarà mai la trascendenza . Se si vuol dare delle arie da profondo si autodefinisce agnostico, se no neppure questo.

Ma c’è anche chi invece  indaga, scava nella storia e dentro di se, si fa delle domande, studia, cerca di riflettere su ogni indizio della vita, e allora può arrivare ( ma non è detto che ci arrivi) ad un punto in cui l’essere si fa intuire. E’ tuttavia impossibile superare quel punto. Si potrà consolare sentendosi in buona compagnia, con Leopardi, con Nietzsche eccetera. Ma poi basta. Dovrà fermarsi li e godersi ( o soffrire)  l’essere per quello che è….alla lettera. Può essere appagante, ma anche angosciante. L’essere, da solo, è confuso-

Però,  giunti dove il sentiero si confonde si può anche tornare indietro. Si può scegliere di rifugiarsi sulle immagini, sulle stesse immagini che la tradizione ci aveva già presentate belle pronte, i volti benevoli della Rivelazione, delle Scritture, e accettarle, ma questa volta a ragion veduta, letteralmente, ossia dopo essere transitati attraverso la ragione,  con una intuizione estetica simile, se vogliamo, a quella dell’ultimo Schelling. Sarà una scelta  per sopravvivere, esattamente come lo era il mito per gli antichi greci. Sarà quindi una fede dignitosa, sorretta da una tradizione nobile, sacra che vuol dire separata, diversa, solida  e ben distinta dalla creduloneria cieca. Forse si tratta del modo più autentico di capire la Rivelazione, se  c’è stata.

Come si inserisce  in tutto ciò il teatro? Che cosa è il teatro,  che cosa era quando nacque (per lo meno in occidente) nell’Attica con la tragedia greca? Non è forse  il luogo sacro dove si rappresenta il mito, ossia l’anima del trascendente, il tempio degli umani dissidi, dove vengono rappresentate le immagini, dove viene raccontato l’essere che, lasciato da solo, senza immagine, senza maschera, senza persona, può dare tanta angoscia? Non sarà forse , il teatro, la vera ecclesia? Non è  il luogo in cui dare un volto all’essere e renderlo comprensibile e quindi raccontabile? Il luogo in cui dare corpo alle parole, incarnare il verbo? Non sarà forse nato proprio nel teatro quel filo di Arianna che  ha salvato l’uomo guidandolo dalle tenebre alla luce, all’alétheia, all’epistéme?

Sartre

Jean Paul Sartre nel romanzo “La nausea“ fa dire al protagonista Antonio Roquentin, che  qualsiasi banale episodio della quotidianità può diventare una grande avventura.

Basta raccontarlo.