Con Le Dieu du carnage, Yasmina Reza mette in scena una delle sue commedie più feroci e lucide, un autentico “laboratorio” di ipocrisie borghesi e tensioni latenti. L’allestimento del Teatro Nazionale di Genova, diretto da Antonio Zavatteri, riesce a coglierne l’essenza con sorprendente naturalezza.
Fin dai primi minuti si ha la sensazione di entrare in quella casa, più che assistere a una rappresentazione. Il merito è soprattutto di un quartetto di interpreti estremamente affiatato — Francesca Agostini, Andrea Di Casa, Alessia Giuliani e lo stesso Zavatteri — che recitano con un realismo tale da cancellare qualsiasi distanza tra palcoscenico e platea. Il ritmo dei dialoghi, le pause, i toni che si alzano e si smorzano, sembrano conversazioni reali più che battute imparate a memoria. Questa recitazione “trasparente” amplifica la tensione drammaturgica: lo spettatore si ritrova a reagire come se fosse seduto anche lui su quel divano, coinvolto nelle dinamiche, a volte grottesche, a volte crudeli, tra due coppie che tentano di risolvere civilmente un litigio tra i rispettivi figli.

Uno dei meriti più evidenti della messinscena è la capacità di far emergere il lato più scomodo e riconoscibile del testo di Reza: la danza delle buone maniere, che lentamente si sbriciola fino a diventare confessione, aggressione, sarcasmo, vendetta. Ci si specchia in quei personaggi: nella loro educazione esibita, nella voglia di apparire “persone per bene” e poi nella caduta, quasi inevitabile, verso impulsi più primitivi. È un crescendo che fa ridere, ma mette anche a disagio: una risata che non lascia tranquilli. Lo spettacolo funziona perché, oltre al divertimento, spinge a riflettere sulla fragilità del nostro “essere civili”. Ci si domanda quanto spesso, nella vita quotidiana, i nostri rapporti siano costruiti su maschere di cortesia, convenzioni sociali, diplomazia di facciata. La tensione arriva gradualmente: a ogni battuta emerge un pezzetto di verità non detta, una punta di aggressività, un giudizio sussurrato. Il pubblico avverte quasi fisicamente questa escalation e a un certo punto si accorge che la guerra non è più tra i due bambini, ma tra gli adulti. È qui che il “dio del massacro” entra in scena: silenzioso, inevitabile, umano.
La produzione del Teatro Nazionale di Genova è solida, intelligente e credibile. Rende giustizia al testo senza sovraccaricarlo, puntando tutto sull’ascolto, sulla relazione tra gli interpreti e su una regia che lascia respirare la parola — proprio dove Yasmina Reza è più impietosa e brillante.
Uscendo dal teatro, si resta con una sensazione ambivalente: si è assistito a una commedia divertente, sì, ma anche a un piccolo esperimento sociale. Ci si ritrova a chiedersi: al loro posto cosa avremmo detto? Come ci saremmo comportati? Siamo davvero “persone per bene”?
