Di spazi claustrofobici, Laura Sicignano, con le sue regie, ha già saputo tracciare traiettorie infinite. Ricordiamo” “Scintille”, tragedia del lavoro in una fabbrica a porte sbarrate, nella New York della grande immigrazione, o “Kakuma” dove uno sguardo al cielo è sempre possibile (dal più grande campo profughi del mondo, tra Kenia e Sudan) ma si avverte lo stesso bisogno d’aria.
In “Donne che corrono” prodotto dal Nazionale di Genova con la collaborazione di Bogliasco Foundation e che ha debuttato ieri sera in prima Nazionale al Modena dove resterà fino a domenica, a differenza degli altri due spettacoli, i personaggi si muovono in uno spazio inventato. Qui, alla fine, le domande senza risposta influiscono in un’ondata che disorienta più di quanto non faccia la cronaca .
In una società multietnica, vite diverse si incrociano nel magazzino sotterraneo di una multinazionale che ha un nome metaforico, Giungla; un black out (incidente o attentato?) blocca ogni via di uscita e le donne reclutate per impacchettare e spedire merci in tutto il mondo restano imprigionate per giorni.
Il tempo che, da quel momento si sfalda in una dimensione sempre più surreale, le costringe a fermare una corsa verso mete differenti e un comune traguardo tangibile che, ormai, è soltanto quello di finire la giornata. Confrontano le proprie diversità, appiattite senza speranza di crescita.
Le loro storie che lo spettatore scopre o deve intuire via via, sono quelle che Laura Sicignano e Laetitia Ajouhnun hanno raccolto “sul campo”: in diversi lavori di mediazione culturale e insegnamento della lingua italiana ad immigrate di diverse età e, alla fine, laboratori teatrali.
Sulla scia di queste esperienze, allo spettatore arrivano le confessioni di Humi (la coreografa Susanna Iheme che ha scelto un personaggio deciso a comunicare soltanto con la propria fisicità); Esperanza (Didi Garbaccio) incrollabile nel tenere fede al proprio nome stemperando la rabbia nel calore che trasmette alla figlia; Aklamayey (Hana Daneri) che come tutte le altre non si è fermata mai, fino a una caduta che l’ha bloccata per sempre; Beatrice (Fiammetta Bellone) italiana che trascina la propria emarginazione da un diverso punto di vista.
E’ questo personaggio la chiave di volta di un copione che ha diverse possibilità di lettura.
In una società in cui la componente degli stranieri si aggira ormai intorno al 12 per cento della popolazione, “Donne che corrono” è nato come esempio di un modo nuovo di fare teatro: con artisti italiani e interpreti immigrati non professionisti, scelti in base al loro talento che, in una prima fase, può emergere più facilmente nel canto e nella danza ma può consentire anche il superamento delle difficoltà linguistiche. Segue una corrente, non solo teatrale, che affronta il problema dello sfruttamento degli stranieri, tanto più pesante quando si tratta di donne.
La presenza di Beatrice, però, ce lo fa percepire anche come un “Tempi moderni” aggiornato dove i pacchi da spedire con soli due minuti di sosta per andare in bagno si sono sostituiti alla catena di montaggio producendo la medesima alienazione.
Come uscirne? Le recluse buttano all’aria tutte le merci che avevano messo in ordine e vedono spalancarsi le porte di un altra giungla, verace attraente ma giungla, appunto, non Eden. E’ un nodo più facile da sciogliere spettacolarmente che con le parole o con la riflessione politico-filosofica. Tra tanti interrogativi, un punto fermo è la volontà di aprire una strada di fluidificare la comunicazione, in pubblico e in platea, tra persone che hanno culture diverse. E’ certamente più difficile, nuovo e per certi aspetti temerario rispetto agli esempi collaudatissimi in campo cinematografico e musicale ma la strada è aperta, quasi spalancata.