Festinese racconta le storie di Crêuza de mä

“Il mio poeta preferito è Omero”.

Confessò così al giornalista della Rai Vincenzo Mollica, Fabrizio De André in occasione di una sua rara apparizione televisiva.

Omero è il cantore epico di Ulisse, il viaggiatore indomito, l’intrepido avventuriero che solcò il Mediterraneo alla ricerca della sua Itaca. Fabrizio, sono ancora sue parole, preferiva “leggere che andare a vedere”. Preferiva immaginare ciò che leggeva. I suoi erano dunque viaggi di fantasia: nella letteratura, ma anche nella società, nell’etica, nella storia. Era un Ulisse sedentario, ma illuminato da una sete di conoscenza e da un’immaginazione straordinarie. Ed era una sorta di ultimo trovatore, nato a Genova, ma con lo sguardo verso la Provenza. Erede di una tradizione che affondava le proprie radici anche nella cultura araba, passata in Europa dalla Spagna: non a caso i trovatori usavano fra gli strumenti, pure la chitarra saracena e non a caso dalla penisola iberica arrivò il rebab, antenato del futuro violino europeo. Premessa necessaria per capire l’atteggiamento con cui De Andrè progettò Creuza de mä, un capolavoro assoluto, punto di riferimento per molta musica successiva, probabilmente il lavoro più originale e rivoluzionario di Faber.

A Crêuza de mä è dedicato un bel libro scritto da Guido Festinese e recentemente edito da Galata.

Mare Faber è un racconto quanto mai dettagliato e documentato non solo di Crêuza de mä, ma anche del “prima” e del “dopo”.

Giornalista, docente di storia ed estetiche delle musiche afroamericane, Festinese ripercorre infatti gli studi, le ricerche, le produzioni antecedenti il lavoro di Faber intorno alla musica mediterranea, citando gruppi e artisti solisti che a vario titolo hanno lavorato non tanto sulla ricerca etnomusicologica in sé, quanto sull’idea di contaminazione fra generi e “suoni” differenti con un’attenzione particolare alle timbriche di strumenti reperiti sulle diverse sponde del nostro mare. Lungo l’elenco dal quale emerge, ad esempio, accanto a Moni Ovadia, una figura fondamentale (anche per la incredibile tecnica vocale) come quella di Demetrio Stratos.

Vero artefice della svolta “mediterranea” di Faber, in precedenza attratto da altri colori musicali, Mauro Pagani che da anni si interessava alle esperienze mediterranee.

Faber conosceva Pagani già dagli anni Settanta. Pagani era infatti componente dei “Quelli” che avevano collaborato con l’artista genovese per La buona novella.  I due si rividero dopo il sequestro di Fabrizio e Dori. Mentre Faber registrava L’Indiano, Pagani lavorava alla colonna sonora di Sogno di una notte d’estate, un musical con la regia di Gabriele Salvatores.

Pagani stava progettando un’esplorazione musicale del bacino mediterraneo. Era attirato dalle esperienze slave, lo affascinavano  le atmosfere greche conosciute attraverso il già citato Demetrio Stratos, era interessato al mondo turco, arabo in generale (nutriva una particolare ammirazione per un musicista algerino, Mohammed El-Anka) e anche andaluso. Aveva raccolto strumenti, sentito centinaia di registrazioni. Stava insomma compiendo un lavoro di ricerca in un settore musicale che era oggetto di trattamento alquanto diversificato fra chi lo sfruttava in maniera e commerciale (adattandolo dunque alle nuove mode internazionali nel nome di una invadente e livellante globalizzazione) e chi invece ne faceva rigoroso oggetto di studio, secondo i principi di una etnomusicologia applicata con criteri sempre più scientifici.

Pagani e De Andrè, dunque, si misero a lavorare.

Pagani aveva già composto alcuni pezzi, buttato giù molte idee, soprattutto individuato, attraverso precise scelte strumentali, diversi “colori”.

Per quanto riguarda i testi, in un primo momento era stato deciso di utilizzare una lingua inventata, ipotetico frutto della commistione di varie esperienze linguistiche accumulate in giro per il Mediterraneo. Poi però, Fabrizio cambiò idea:  “Una volta individuati gli strumenti etnici che in quella che qualcuno ha voluto chiamare una piccola Odissea volevano ricondurci alle atmosfere del bacino del Mediterraneo dal Bosforo a Gibilterra era necessario adattare ai suoni che quegli strumenti riproducevano una lingua che ci scivolasse sopra attraverso fonemi cantati, indipendentemente quindi dalla loro immediata comprensibilità le stesse atmosfere che gli strumenti evocavano. A noi la lingua più adatta ci è sembrata fosse il genovese con i suoi dittonghi, i suoi iati, la sua ricchezza di sostantivi e di aggettivi tronchi che li puoi accorciare o allungare quasi come il grido di un gabbiano”.

Ecco dunque prendere forma Crêuza de mä.

Il disco uscì nel 1984 per la Ricordi. Guido Rignano, presidente della casa discografica non nutriva grandi speranze, sarebbe stato già contento di vendere un po’ di copie in Liguria. Spesso discografici e editori, pur abilissimi, non sono profeti felici. Basta ricordare che l’editore Sonzogno nel 1890 aveva pronosticato per Cavalleria rusticana di Mascagni un successo di stima, affermando che l’opera era musicalmente bella ma non teatrale! Fu, quell’opera “non teatrale”, la fortuna del musicista, dell’editore e dello scrittore Verga al quale, nel 1893, fu versato una tantum l’importo non trascurabile di 143.000 lire!

Non so se Crêuza de mä fece la fortuna di Ricordi. Certamente non vendette solo poche copie in Liguria, ma si affermò come un autentico evento a livello non solo nazionale.

Nel 1989 la rivista Musica e dischi elesse l’album miglior disco degli anni Ottanta.

Con la stessa attenzione con cui ha raccontato l’antefatto, Festinese si sofferma infine sull’eredità lasciata dall’opera di Fabrizio e di Pagani evidenziandone l’importanza e il ruolo centrale nella attuale world music.

Questo articolo ha un commento

I commenti sono chiusi.