Applausi per lo Stradella sacro

C’era davvero poco pubblico, ieri sera, al Carlo Felice per l’Oratorio San Giovanni Battista di Alessandro Stradella. I presenti hanno mostrato di gradire applaudendo calorosamente gli interpreti a fine esecuzione. Ma sulla scarsa partecipazione del pubblico alle più recenti iniziative del nostro teatro lirico, varrà la pena poi riflettere.

La partitura

Com’è noto il Seicento italiano vide la nascita di una nuova forma sacra, l’oratorio, che si sviluppò seguendo due indirizzi distinti: da una parte la forma in latino (trasformazione dell’antico mottetto) di cui fu maestro assoluto Carissimi (si pensi al suo capolavoro Jephte), dall’altra la versione in lingua volgare (le cui origini andrebbero forse ricercate nello sviluppo dialogico della lauda cinquecentesca) destinata ad avvicinarsi sempre più nelle sue componenti interne alla coeva opera lirica. Non a caso gli autori principali furono anche i più eminenti operisti del tempo.

San Giovanni Battista (testo dell’abate Ansaldo Ansaldi) fu eseguito la prima volta a Roma nel 1675, prima, dunque, dell’arrivo fatale di Stradella a Genova. Si tratta di una partitura complessa e interessante sia per la parte vocale sia per l’accompagnamento strumentale che mostra una notevole varietà, configurandosi talvolta come una sorta di concerto grosso con un concertino, cioè, contrapposto al ripieno del tutti. Musicista geniale, non etichettabile all’interno di alcuna scuola del tempo, Stradella dimostra una perfetta conoscenza della voce con un’attenta caratterizzazione dei personaggi. Una scrittura quanto mai varia. C’è il virtuosismo acrobatico della Figlia (“Non fi a ver che mai si sciolga”) il cui carattere volitivo è ben espresso nei vocalizzi iterati e non certo semplici da risolvere; ma c’è anche il pacato, maestoso lirismo di San Giovanni (“Io per me non cangerei”)  in cui alcuni passaggi cromatici portano una nota di umano patetismo. E anche nei brani d’insieme  Stradella gioca sulla eterogeneità di atteggiamenti: così è per il terzetto patetico tra la Figlia, la Madre e il Consigliero (“Non fi a ver che mai si sciolga”) oppure per il duetto costruito parzialmente a canone fra Erode e la Figlia (“Freni l’orgoglio”). Una partitura, insomma, che si può annoverare fra le più felici esperienze del nostro Seicento sacro.

Gli interpreti ieri sera ai saluti finali

L’esecuzione

L’esecuzione è stata affidata a Andrea De Carlo uno specialista dello stile barocco. L’Orchestra era formata da alcuni archi del complesso del Carlo Felice (impegnati essenzialmente nel ruolo di ripieno) e, con funzione di concertino e basso continuo,  dall’Ensemble Mare Nostrum, giovane gruppo composto da violini (non inappuntabili nella intonazione), arciliuto e chitarra barocca, tiorba, viola da gamba, violoncello, contrabbasso e tastiere antiche.

De Carlo ha offerto una lettura sicuramente interessante e partecipe, ben amalgamando voci e strumenti. A nostro parere, sarebbe stato preferibile trasferire questa esecuzione in uno spazio sacro più adatto all’acustica che una partitura del genere richiede. Senza contare che la presenza del sipario tagliafuoco alle spalle del complesso aveva un effetto riverberante che ha ingigantito il suono dello strumentale (forse eccessivamente numeroso?) a tutto svantaggio delle voci.

Cast vocale di buon livello. In primo piano Silvia Frigato, la Figlia, voce ben dominata tanto negli slanci lirici quanto nei passi più virtuosistici, oltretutto con una chiara dizione. Bene anche la Madre, Dorota Szczepanska. Masashi Tomosugi è stato un Erode tonante, non sempre, a nostro parere, calato nello stile stradelliano, ma convincente e coinvolgente.

Il ruolo di San Giovanni Battista era stato affidato a un artista di livello riconosciuto quale Max Emanuel Cencic che tuttavia ha dato forfait: lo ha sostituito Danilo Pastore, elegante, ma non sufficientemente autorevole in un ruolo così importante. Completava il cast Topi Lehtipuu, il Consigliero.

Il pubblico

Applausi, si è detto, ma presenze davvero scarse. Il Carlo Felice, tra l’altro, ha una conformazione tremenda. Anche quando è pieno a metà (il che significa 1000 persone che in altre città sarebbe un “quasi esaurito”) sembra vuoto, figuriamoci con la partecipazione di ieri.

Dal momento che l’allontanamento del pubblico non lo si registra solo ieri per la prima volta, ma sembra essere un fenomeno già riscontrato ad esempio per Bianca e Fernando sarà bene interrogarsi sulle motivazioni. Si tratta solo della paura del Covid che tiene tanti appassionati lontano dai teatri? Oppure c’è anche uno scarso interesse per la attuale programmazione?

Il calo di pubblico è un fenomeno comune a molti teatri che però, in alcune occasioni, hanno registrato un significativo aumento di presenze: pensiamo ad esempio a Sokolov alla GOG.

Insomma, sarà bene capire cosa sta succedendo anche perché a giorni sarà presentata la stagione lirica e sinfonica da gennaio a maggio. E la presenza di un pubblico un po’ più consistente sarà fondamentale per un rilancio del teatro.