Béatrice et Bénédict, le mancate aspirazioni shakespeariane di Berlioz

Nella politica culturale avviata dal Carlo Felice la prima di stagione si configura come uno spettacolo di particolare rilevanza sia pure per motivazioni differenti da un anno all’altro. Il passato cartellone si aprì con la riesumazione di Bianca e Fernando di Bellini, l’opera che nel 1828 aveva inaugurato il vecchio Carlo Felice. E ieri sera il sipario del nuovo cartellone si è aperto su Béatrice et Bénédict di Berlioz, presentata in prima italiana. Novità, dunque, assoluta, ma se si considera che dal 1948 (anno in cui a Palazzo Ducale fu rappresentata La dannazione di Faust) il compositore francese manca dalle nostre scene, l’appuntamento, almeno sulla carta, era di indiscutibile richiamo.

Il Carlo Felice ha recuperato per l’occasione un allestimento ideato dal regista Damiano Michieletto per l’Opera di Lione, dove però, causa Covid, lo spettacolo si era arenato alla prova generale. Spettacolo, dunque, fresco e originale, sul quale il Teatro genovese ha puntato molto per una buona partenza della sua stagione lirica.

L’opera di Berlioz

Diciamo subito che l’opera di Berlioz è tutt’altro che un capolavoro. Ormai sulla via del tramonto fisico e psichico, Berlioz pagò il suo ennesimo tributo all’amore per Shakespeare ricavando lui stesso da Molto rumore per nulla un libretto confuso, di scarso valore drammaturgico. La scelta di utilizzare la forma dell’opéra-comique, probabilmente, si è rivelata infelice. L’opéra-comique non va confusa con l’opera comica, non ne è una trasposizione francese. La forma nel primo Settecento indicava uno spettacolo misto di prosa e musica di carattere popolare, di spirito comico e con la musica presa a prestito da un repertorio preesistente. Poi nell’arco del Settecento (complice la figura di Rousseau) ha iniziato a nobilitarsi con una musica appositamente scritta, mantenendo tuttavia l’alternanza fra prosa e musica. Nel periodo della rivoluzione francese  affrontò anche temi legati agli ideali di libertà e uguaglianza, perdendo pertanto ogni connotazione comica, ma mantenendo un lieto fine. E nell’Ottocento, in opposizione alle altre forme del teatro francese (prima la tragédie-lyrique, poi il grand-opéra) ha costituito il repertorio più leggero, puntando su una musica piacevole e relegando prevalentemente gli accenti più drammatici alla parte recitata. Tutto ciò fino a Bizet che con la sensuale Carmen e il suo tragico finale scandalizzò gli habituées del genere, tanto che il suo capolavoro uscì dalla prima fra i fischi.

Berlioz nel riprendere la forma dell’opéra-comique ha voluto quindi optare per una lettura più leggera e il suo ideale è stato forse il teatro italiano di respiro quasi settecentesco come si può anche vedere nella orchestrazione (sempre felice in questo autore) certamente più trasparente rispetto alle sue grandi partiture sinfoniche.

Autore straordinario Berlioz ha lasciato capolavori indiscussi nel settore strumentale nel quale spesso ha evidenziato anche un respiro drammaturgico: pensiamo alla stessa Sinfonia fantastica, ma anche ad Aroldo in Italia, all’Enfance du Christ e soprattutto alla sinfonia drammatica per soli, coro e orchestra Romeo et Juliette. Curiosamente, però, quando dal settore strumentale ha cercato di portare la sua idea di drammaturgia sulle scene effettive, il risultato raramente è stato del livello della sua genialità.

Ciò è evidente appunto in Béatrice et Bénédict. C’è si la leggerezza, ci sono alcune pagine di indiscutibile bellezza (l’Ouverture, l’aria di Hero, il duetto della stessa Hero con Ursula, l’aria di Béatrice, il finale in cui una sorta di ironica Marcia al supplizio sostituisce la prevedibile marcia nuziale) ma il “teatro” non decolla, manca sempre qualcosa. Non vorremmo essere ingenerosi con il genio di Berlioz, ma un testo del genere avrebbe avuto bisogno dell’estro rossiniano: un paio di suoi concertati avrebbero cambiato le carte in tavola.

La realizzazione

Per fortuna, ieri sera, c’era sul podio Donato Renzetti che ben seguito da coro, orchestra e solisti, ha tesorizzato al massimo le perle disseminate dal compositore offrendo dunque una eccellente lettura del lavoro per eleganza, slancio lirico, coesione fra buca e palcoscenico. I complessi stabili sono stati inappuntabili e il cast ha garantito un’ottima prestazione. Cecilia Molinari e Benedetta Torre hanno vestito con autorevolezza e belle soluzioni vocali i panni di Béatrice e Héro, Julien Behr è stato un appassionato Bénédict; e bene anche gli altri, Nicola Ulivieri (Don Pedro), Yoann Dubruque (Claudio), Gerard Robert-Tissot (Leonato), Eve-Maud Hubeaux (Ursula) e Ivan Thirion (Somarone).

La regia, come si è detto, era affidata a Damiano Michieletto, del quale ricordiamo una bella interpretazione del Cappello di paglia di Firenze di qualche anno fa.

In questo caso, Michieletto si è lanciato in una lettura decisamente originale e complessa. Ha giocato cioè sulla contrapposizione fra l’amore convenzionale di Hero e Claudio e quello passionale e istintuale di Bèatrice e Bénédict. Estremizzando la conflittualità, ha visto nell’amore-odio fra i due protagonisti del titolo un rapporto atavico che lo ha condotto al paradiso terrestre fra animali (la scimmia, l’ottimo mimo Amedeo Podda, che si aggira libera per il palcoscenico) e le nudità di Adamo ed Eva. Ha poi affidato il ruolo di cinico documentatore della vicenda al personaggio comico di Somarone che gira con un registratore e continua a piazzare microfoni per captare tutte le impressioni dei personaggi. Basandosi, dunque, sulla scena di Paolo Fantin, Michieletto ha immaginato una grande scatola bianca affollata di microfoni e una sezione avanzata nera in cui avvengono i dialoghi parlati; la scatola si divide a metà per evidenziare la frattura fra i due protagonisti e mostrare nel secondo atto un rigoglioso paradiso terrestre destinato però alla distruzione con l’elevazione di una rete che imprigionerà Adamo ed Eva, costretti, loro malgrado, a indossare abiti nuziali, rientrare nelle convenzioni e finire in una teca come poco prima era avvenuto per due innocenti farfalle.

Lavoro senza dubbio interessante e complicato (da lodare il reparto tecnico del Teatro), troppo, però, intellettualistico. A parte le ovvie discrepanze con il libretto (evidenziate in maniera quasi spiazzante dalla proiezione del testo, come è consuetudine, durante lo spettacolo) la lettura ha finito in certi momenti per appesantire lo spettacolo piuttosto che vitalizzarlo. Ad esempio, la scena , quasi violenta, di vestizione di Adamo ed Eva avviene mentre il coro intona un inno al vino di Sicilia. Ebbene poco dopo,  con la stessa veemenza si inducono Béatrice e Bènédict a indossare i vestiti per le nozze ma a questo punto è una scena già vista e risulta una inutile ripetizione. Il pubblico, comunque, ha applaudito a ragione la bravura degli interpreti.