Lazarus, là dove finisce la musica e comincia l’anima: il testamento di Bowie

Lo spettacolo Lazarus, andato in scena ieri sera al Teatro Ivo Chiesa, non è semplicemente un musical. È un testamento artistico travestito da sogno, un’elegia visionaria in cui David Bowie si racconta senza mai apparire direttamente, ma facendosi presenza totale, fantasma lucido e poeta terminale.

Nel personaggio di Thomas Jerome Newton – alieno intrappolato sulla Terra, incapace di morire – si riflette l’ombra lunga dello stesso Bowie: la sua stranezza, la dipendenza vissuta negli anni ’70, la sua costante trasformazione di identità, il suo sentirsi fuori dal mondo. Newton è l’eco malinconica di Ziggy Stardust, ma anche una figura umanissima, perduta nel tempo e nei rimpianti.

Il legame con la vita reale dell’artista è profondo e toccante. Bowie scrisse Lazarus mentre affrontava in silenzio la malattia che lo avrebbe portato via, e la sua opera assume la forma di un rituale di addio. La figura della Ragazza, che guida Newton verso la liberazione finale, sembra incarnare una figlia, forse proprio la sua Lexi , oppure la giovinezza che resta dopo di lui, come un’ultima carezza alla vita.

Ma è proprio la regia di Walter Malosti e la scenografia avvolgente firmata da Nicolas Bovey a trasformare questo viaggio in qualcosa di sensoriale e concreto. Il palco si fa palco dentro il palco, spazio mentale e sogno al neon, dove le proiezioni video (Luca Brinchi, Daniele Spanò) e il gioco luci (Cesare Accetta) moltiplicano i piani di realtà, come fossero i riflessi di una coscienza che si frammenta, si sdoppia, si ricompone.

Il pubblico si trova immerso in una sorta di teatro interiore, dove la scenografia diventa specchio del cervello di Newton/Bowie: una stanza chiusa che contiene l’universo, un rifugio-mondo che implora fuga e comprensione. Il gioco visivo tra reale e proiettato è poetico e perturbante, e restituisce con forza l’idea del confine labile tra la vita e la morte, tra memoria e immaginazione.

La musica, naturalmente, è il cuore pulsante dello spettacolo. Le canzoni – da Lazarus a Life on Mars?, da Heroes a When I Met You – non sono solo esecuzioni, ma confessioni sonore, immagini interiori, memorie musicali che si incarnano nei personaggi. Ogni brano diventa una specie di soglia: tra passato e presente, tra vita e morte.

È importante sapere che David Bowie non ha curato da solo gli arrangiamenti e l’orchestrazione delle canzoni per il musical. Pur avendo scritto personalmente i brani nuovi per Lazarus e seguito da vicino la produzione fino agli ultimi mesi di vita, ha voluto affidare questo compito a Henry Hey, pianista e direttore musicale che aveva già collaborato con lui nel disco The Next Day.

Hey ha avuto un ruolo centrale: ha creato nuovi arrangiamenti teatrali per le canzoni, adattandole a un piccolo ensemble dal vivo e alla drammaturgia dello spettacolo. Non si tratta, quindi, di un semplice “Bowie in concerto”, ma di un linguaggio musicale reinventato: intimo, essenziale, a tratti etereo, a tratti ruvido.

Una musica che non accompagna la scena, ma la abita dall’interno, come se fosse la voce stessa della coscienza del protagonista.

Grazie a questa collaborazione, le canzoni riescono a vivere in modo nuovo, come se fossero nate apposta per questa storia — e forse, in un certo senso, lo erano davvero. La musica in Lazarus è come Bowie stesso: sempre presente, ma mai ovvia, capace di toccarti nei punti che non sapevi di avere.

Lodevole la prova degli interpreti a cominciare da Manuel Agnelli, il protagonista. Accanto a lui la giovane Casadilego, la coreografa e danzatrice Michela Lucenti e un gruppo affiatato di cantanti, ballerini e strumentisti.

Mi si consenta, in conclusione, una riflessione personale. Di David Bowie avevo ascoltato in passato alcune canzoni, ma non avevo una conoscenza particolarmente approfondita della sua figura. Ero, dunque, alquanto incuriosita.

E forse proprio per questo, lo spettacolo mi ha lasciata con tante domande, tante emozioni, una grande voglia di andare più a fondo nella personalità di questo artista. È stato uno di quei momenti rari e profondi in cui scopri che qualcosa che ti tocca nel profondo era sempre stato vicino a te… e non lo sapevi. Una sensazione bellissima. E inquietante. Come lo è Lazarus.

Un addio che sembra un inizio.