La sala del Carlo Felice, ieri sera per il consueto appuntamento con la stagione della Giovine orchestra Genovese, era piena, il pubblico attento, l’atmosfera densa di aspettative. Quando Kavakos è entrato sul palco, ha portato con sé qualcosa che non si può spiegare. Una presenza che va oltre la tecnica e la fama: è la sua semplicità, la naturalezza con cui calca il palco, come se fosse il suo salotto. Nessun divismo, solo verità musicale.
Il programma ha subito una piccola variazione: al posto della Sonata di Franck inizialmente prevista, è stata eseguita la Fantasia in do maggiore di Schubert. E che scelta meravigliosa. Un’opera che ha offerto a Kavakos e a Enrico Pace (pianista)— una perfetta simbiosi — l’occasione per creare un dialogo autentico, intenso, quasi intimo. La lettura di Schubert è stata poetica ma mai sentimentale, cantabile ma lucida, giocata su una tavolozza di dinamiche sottili e respiri larghi. La capacità di plasmare la forma con naturalezza ha reso ogni passaggio narrativo, sospeso tra lirismo e visione.
È stato un vero duo di musica da camera, Il dialogo con il pianista era vivo, respiravano insieme, costruivano insieme. Un’intesa che andava oltre lo spartito.
Ogni gesto era essenziale, ogni suono sembrava inevitabile. E proprio da quel senso di necessità musicale è scaturita una delle sorprese più affascinanti della serata: i tre brani del compositore svizzero Richard Dubugnon, scritti nel 2010. Non conoscevo quest’autore, e grazie a Kavakos sono stata immersa in un mondo che sembrava impressionista in chiave moderna — un linguaggio musicale vivido, ricco di trasparenze, di vibrazioni luminose. Suoni che sembravano volare, che creavano la sensazione di colori. Una scelta di repertorio raffinata, audace, e allo stesso tempo perfettamente coerente con il resto della serata.
Non mi permetto di valutare Leonidas Kavakos. Non si può. Si può solo ascoltare, ammirare, ringraziare.
Guardandolo, ti sembrava tutto facile, tutto naturale. Ma dietro quella facilità c’era una profondità sconvolgente.
La serata si era aperta con la Sonata in la maggiore op. 47 “A Kreutzer” di Beethoven, affrontata con visione e autorevolezza. Kavakos ha scolpito ogni sezione con una tensione interiore che non ha mai cercato l’effetto, ma la verità musicale. Il primo movimento, impetuoso e drammatico, ha trovato un equilibrio straordinario tra energia e controllo. Il secondo, più intimo, è stato un esempio di eleganza e respiro, mentre il finale ha unito brillantezza tecnica e spirito cameristico. La presenza scenica, sempre misurata, non ha mai tolto spazio alla musica: anzi, l’ha amplificata.
Come bis, Kavakos ha offerto due gioielli: la Danza Ungherese n. 2 in re minore di Brahms, piena di fuoco, eleganza e virtuosismo, e Liebesleid di Fritz Kreisler, brano dal lirismo nostalgico, interpretato con profondità e dolcezza. Un gesto finale che ha lasciato il pubblico con il sorriso e un senso di gratitudine.
E, in chiusura, una riflessione personale. Sin da bambina sognavo di assistere a un suo concerto dal vivo. Ieri sera, questo sogno si è avverato. Un’esperienza che resterà con me. Ci sono i bravi, i bravissimi, gli eccezionali… e poi c’è Kavakos.