Quanti conoscono o hanno semplicemente creduto di conoscere bene l’attore, drammaturgo e regista Marco Sciaccaluga in tanti anni di teatro? Molti, forse troppi. Sono noti i suoi pensieri da artista ( o forse solo alcuni), “La sua profondità da esegeta, la serietà, la meticolosità, la fatica e l’amore totale con cui torna dai suoi figli” come ha già scritto Carlo Repetti, i suoi successi, i momenti di stallo, ma quanto non si riesce ad afferrare? Su queste lacune ha preso spunto il prezioso volume di Roberto Iovino intitolato simbolicamente “Marco Sciaccaluga e il Teatro. Vita di un minatore ostinato”, per De Ferrari edizioni. Chi scrive conosce davvero bene i molteplici lati della personalità di Sciaccaluga, il profilo privato e pubblico, all’incirca da sessant’anni or sono. I ricordi iniziano alla prima elementare con un compagno “dalla faccetta tonda e allegra” e poi si trasformano in emozioni e rincorse fino alla maturità al Liceo Doria per poi fare ingresso nel mondo adulto, completo, ognuno col suo ruolo, verrebbe da dire ognuno con la sua parte “da recitare”. Sono le attribuzioni imposte dalla professione, quella di critico musicale, di docente e di direttore del Conservatorio da parte di Roberto Iovino, e la carriera teatrale per Marco Sciaccaluga dall’altra. Strade parallele a cui capita anche, a dispetto delle regole della geometria, di intersecarsi.
Questo “libro-intervista” inaugura una nuova forma letteraria diversa dalla biografia, distante dal saggio eppure di agevole lettura. Fin dalle prime righe Sciaccaluga parla di un teatro prima ammirato e poi vissuto giorno dopo giorno e della sua estrazione. “Non figlio d’arte, figlio di abbonati. Ricordo bene il mio primo spettacolo. Avevo nove anni e mia nonna mi condusse una domenica pomeriggio al Carlo Felice a vedere Il ratto del serraglio di Mozart”. Le parole di Sciaccaluga tagliano fin da subito il vetro della deferenza: con l’interlocutore giusto ogni lettore si trova così sul medesimo piano del grande maestro, opportunità che capita nella realtà solo tra menti affini. Primo spartiacque verso il successo per Sciaccaluga a 21 anni con l’ingresso da professionista allo Stabile non senza rivoluzioni, non senza tenere stretta quella libertà che il regista e attore si sarebbe sempre tenuta saldamente tra le mani arrivando spesso a rischiare, a cercare il punto di rottura nel pubblico, quello che per i comuni mortali significa amare follemente o detestare una rappresentazione a seconda del grado di comprensione o dell’orientamento all’ascolto. Lo ha fatto fin da subito, dagli appena 22 anni con cui entrava in regia, costretto a continui confronti, a sfidare completamente se stesso fino alle ultime rappresentazioni.
Capita di contraddirsi o semplicemente di cambiare idea come documenta Roberto Iovino dai grandi classici ai contemporanei. Succede ad esempio in “Morte di un commesso viaggiatore” fatto prima con Bosetti e anni dopo con Pagni arrivando a vette praticamente irraggiungibili e poi nelle diverse versioni di “Tartufo” come attore con Besson, come regista a Zagabria e poi con Pagni e Solenghi o ancora con la “Dodicesima notte”, ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Tra le rappresentazioni più amate dal pubblico “Antigone” oppure “Madre Coraggio”, “Un mese in campagna”, “Svet” o “Il Gabbiano” che Sciaccaluga inaspettatamente associa a un quadro “La morte di Icaro” di Bruegel. “Racconta tutta l’insensatezza della vita. Cerchi Icaro ma non lo vedi -dice Sciaccaluga- cerchi un idillio campestre e trovi un dramma. Allora piangi e ridi allo stesso tempo perché vi trovi l’assurdo destino umano”.
Il dramma nel teatro di prosa è spesso cadenzato dalla musica quando è firmato Sciaccaluga: diventa una sorta di scenografia, tant’è che ha collaborato con i più grandi, tra gli altri Gino Negri, Arturo Annecchino, Andrea Nicolini, Nicola Piovani…
Pagina dopo pagina si capisce tutto il lavoro che sta dietro alla “macchina teatro”, tra testimonianze e complessità all’interno e fuori dal palco come la situazione dei Teatri Nazionali sottoposti a nuove norme. Brilla una luce su tutto, che per Sciaccaluga non morirà mai: quella della Scuola di Genova, “Una bottega del Rinascimento. Non lo sostengo io: in Italia si dice che come gli allievi di Genova non ce n’è. E questa è una caratteristica da bottega, un merito esclusivo di Anna Laura Messeri e di Massimo Mesciulam”. Così si giunge alla fine, pescando un capitolo per volta vere meraviglie, le stesse che a teatro zitti, zitti si catturano ( o si sperano soltanto di recepire) dalla platea. Un libro come questo di 200 pagine con prezioso materiale fotografico e una poderosa teatrografia lo rende, per una volta, decisamente a portata di mano.