Non sapevo moltissimo di Ezio Bosso, dico la verità. La notizia della sua scomparsa però mi ha addolorato profondamente non solo perché inaspettata, ma perché il ricordo delle occasioni in cui l’ ho visto parlare, suonare o dirigere, era sempre accompagnato dalla gradevole sensazione di una candida e nobile naturalezza con cui parlava di musica e di vita, con cui suonava, con cui dirigeva.
L’attrazione per la musica, che ha contraddistinto tutta la sua esistenza e l’attrazione per lui da parte dei mezzi di comunicazione, cresciuta a dismisura dopo l’insorgere di una terribile serie di malattie invalidanti, ci pongono una serie di domande. I processi di apprendimento si basano sulla forza dell’attrazione; si impara perché si viene attratti e non perché si viene spinti o indotti verso qualcosa. Ezio questo l’ha sempre sostenuto e dimostrato nel suo essere musicista poliedrico: compositore, pianista, direttore d’orchestra. E nei suoi racconti l’attrazione per la musica sgorgava come fresca acqua di sorgente montana: inarrestabile, limpida, naturale. Nessuna posa intellettuale, nessuna chiusura da divo, nessuna pretesa da guru, nessun sottrarsi alle domande di chiunque.
Bello sentirlo chiamare Beethoven “il mio papà musicale”, perché la frequentazione vera e continuata della musica porta proprio a questo, all’affetto riconoscente per gli autori che più amiamo e che più apprezziamo. Ed accanto all’attrazione per la musica, la voglia di approfondire e diffondere il valore che ad essa sottende. Valore etico, culturale, sociale. Sociale perché la musica, come le altre arti educa ai sentimenti, sentimenti che non sono innati ma che si imparano; frequentare l’arte in definitiva non può che fare bene a noi stessi. Tali valori venivano da lui illustrati con la convinzione profonda di chi li sente come necessità. Un’attrazione quindi sinceramente autentica, sostenuta da tecnica, competenza e passione civile. I suoi richiami alla necessità di ascoltarsi, al bisogno di afferrare i momenti di felicità, hanno un corrispettivo al tempo stesso esistenziale e musicale. C’è da domandarsi oggi che Ezio non è più tra noi mortali, se a tale panica attrazione abbia corrisposto un’egualmente panica attrazione verso di lui. Le interviste volentieri rilasciate, anche subito prima dei concerti, rivelano spesso, complice la banalità irriverente di sciocche domande, un’attrazione marcata da patofilia latente, da quell’italica propensione alla retorica dolorante, agita perché spinti da aspirazioni di audience e stupidaggini simili, piuttosto che attratti dal suo nobile essere e dal suo inevitabile senso musicale. Scomparso il maestro, qualche sprovveduto si è immediatamente affrettato a definirlo “il più grande”; il più grande Bosso non lo è stato, se non altro per la sua giovane età, ma se avesse potuto ancora giocare con la vita, sarebbe diventato sempre più interessante, umanamente e musicalmente.
Lo ricorderemo con riconoscenza perché ci ha attratti comunicandoci la sua attrazione, che tale era da trasfigurare e rendere luminosa anche la lotta con le malattie che negli ultimi cinque anni era stato chiamato a sostenere.