Chi non ci va, la provi;
chi ci va, perseveri;
chi le vuole male cambi idea e
chi la ama si stringa a coorte per difenderla.
Il soggetto ovviamente è l’opera lirica, per Alberto Mattioli una magnifica e folle ossessione dai 15 anni in su. Ha assistito infatti a quasi 1.800 recite in tre continenti tra palchi, loggioni o lo Stehplaz dei teatri tedeschi, decine di Paesi e centinaia di teatri da Verona a Mumbai con una Traviata dove la donna esalava l’ultimo respiro in un letto bollywoodiano (giusto per citare due estremi tra i tanti possibili) passando persino dalla placida cittadina di Casale Monferrato con un Elisir d’amore in piemontese; ovunque si alzi un sipario, per lui vale il viaggio perché l’opera lirica mantiene intatto il suo misterioso potere emozionale, la sua capacità di parlare al cuore e al cervello degli spettatori.
Mattioli racconta questo legame inscindibile nel volume “Pazzo per l’opera” dove tratteggia codesto affascinante mondo non solo per chi all’opera ci va, ma anche per chi ci vorrebbe andare o ne è solo incuriosito: dai teatri italiani che hanno reso nazionalpopolare il melodramma, quando Rossini, Verdi e Puccini erano la colonna sonora della vita di molti, all’opera di oggi, fenomeno globale e multimediale.
Una ricetta di emozioni smodate che nel tempo non smette di farci piangere, disperare, ridere e riflettere. “Del resto, in questo caso- scrive l’autore – si parla di melodramma: come volete che si conservi la moderazione dove trionfa l’esagerazione e la ragione se il momento culminante di molte opere è quando la protagonista la perde?”. Si cerca insomma di spiegare ciò che in realtà non è razionale e si vive di pancia, finendo a calarsi nella finzione dell’opera, a volte vera più della realtà stessa o decisamente più accattivante.
La fede nell’opera è talmente forte per l’autore da fargli posporre qualsiasi altra cosa, lasciandosi cullare in quel non so che della rappresentazione tra palco e buca, tra immagine e suono in cui non esiste l’alibi del finale. Non per nulla aveva già scritto, in occasione delle 1000 recite diversi anni fa “Anche stasera – Come l’opera ti cambia la vita”.
Cosa cambia oggi? Alcune cose restano decisamente immutate. “Come va a finire lo sai già- ammette Mattioli- male, nella maggioranza dei casi, ma questo è un altro discorso, e poi c’è sempre l’incognita di qualche trovata registica, come quando Calixto Bieito ad Hannover fece sopravvivere Violetta che alla fine, invece di morire, scappava insieme ad Annina con la quale aveva una relazione lesbica: sempre meglio di quel babbeo di Alfredo, in effetti…”
Proprio sui registi si consumano alcune tra le pagine più piacevoli e pungenti dell’intero testo. Penso al dilemma tradizione (amata dal melomane medio) e innovazione, che può sconfinare nel trash o nella piacioneria di una Mimì in succinto jeans. A tal proposito a Mattioli non può sfuggire, dopo la descrizione delle più esilaranti “voci da loggione” (magari su Carsen e Guth o Leiser e Caurier) la pagina Facebook “Against modern opera productions”.
Regia tradizionale e regia moderna, un duello lungo e appassionante, anche se ci sono degli unicum. Tra questi Davide Livermore che propone, come altri della sua “specie” per restare sul tono scherzoso, “allestimenti di una sfarzosità zeffirelliana declinata in chiave hi-tech ma non rinunciano per questo a fare teatro, come peraltro faceva Franco Zeffirelli quando era ancora lui e non la sua caricatura”. E sono righe del volume. Tra i passi da ricordare poi giusto per fare qualche accenno almeno gli spettacoli di Pier Luigi Pizzi, il centenario della prima dell’Anello del Nibelungo nel 1976 con Patrice Chéreau o l’inquietante Don Carlo di Carsen o ancora la Butterfly di Michieletto spietata nella sua ambientazione in una periferia di metropoli orientale.
Altro punto che permette di speculare e di sognare quello dedicato ai luoghi dell’opera da Salisburgo a Bayreuth. Deliziose le pagine su Macerata con quel gioiello di acustica dello Sferisferio, una volta una Arena-bis oggi capace di osare una sua identità così straniante e così completa, in relazione a incontri, dibattiti, feste e mostre. Ancora, la chicca sul Festival della Valle d’Itria che per tutti è quello di Martina Franca, dal luogo dove nacque Paolo Grassi, cofondatore con Strehler del Piccolo di Milano. Tante le connessioni messe in luce nel corso dei capitoli, sempre discorsive e piacevoli, mai troppo accademiche o autoreferenziali bensì spesso autoironiche. Tra queste il riferimento al Traditore, film su Tommaso Buscetta di Marco Bellocchio quando, nelle immagini che decretano come finalmente la giustizia sia stata raggiunta, appare il “Va Pensiero”. Un modo di legare acutamente il Risorgimento alla lotta alla mafia.