Quando il mondo si fermò ad ascoltare: Van Cliburn, il pianista che vinse la Guerra Fredda

Ci sono libri che narrano vere leggende riuscendo a dare esempi concreti del valore universale della musica. Tra questi è una sorpresa per stile, dettagli e materiale fotografico un volume della Biblioteca di cultura musicale Contrappunti per EDT di Stuart Isacoff, pianista, fondatore della rivista “Piano Today” e firma del “Wall Street Journal”. Il titolo “Quando il mondo si fermò ad ascoltare” rende bene l’idea di un attimo di grazia e di sospensione anche dalle questioni eminentemente politiche.

Il contesto si muove sullo sfondo del 1958, con una pesantissima cortina di ferro, per dare spazio ad un vivace concorso musicale: la prima edizione della famosissima gara pianistica Čajkovskij , una sorta di  Coppa del Mondo della sette note, che allora veniva organizzata dal ministero della cultura dell’URSS. L’esito sembrava scontato, poi accadde l’incredibile.

Protagonista Van Cliburn, col suo metro e novantatré sormontato da una chioma bionda a cespuglio (la moglie dell’Ambasciatore americano lo aveva soprannominato “Brillo Top”), la fronte spesso aggrottata nell’esecuzione, lo sguardo puntato sulla tastiera o, al contrario, verso il soffitto e le labbra perennemente serrate. “Non aveva nulla dell’intensità minacciosa di uno Sviatoslav Richter -scrive l’autore- del demonismo corrusco di un Vladimir Horowitz; quando suonava lui, pareti e pavimento non tremavano come quando suonava Anton Rubinstein. Molto semplicemente Van Cliburn suonava come un angelo.  E i moscoviti, gente con il cuore in mano, glielo offrirono“.

In Russia apprezzavano il genio: era già successo con il pianista canadese Glenn Gould che nel 1955 aveva fatto rizzare le orecchie con la sua versione discografica delle Variazioni Goldberg di Bach e che fece il tutto esaurito anche a Mosca. “Erano agli opposti: ascoltando Gould si tratteneva il respiro, ascoltando Cliburn, si sospirava”, si legge nel libro.

Dalle folle si passa alla critica, fino a Richter, Emil Gilels, Dmitrji Kabalevskji, Heinrich Neuhaus e tanti altri con gli incontri della giuria, la tensione di chi voleva celebrare il genio patriottico e la tenacia di Gilels, per primo, che corse dei rischi personali per salvaguardare l’equità del concorso. Fu lui a influenzare la decisione di Nikita Chruščëv che permise al texano la vittoria.

Si parla della fama, della maschera mortuaria realizzata dal vivo e custodita nel Conservatorio di Mosca, del giro d’onore del concerti da Kiev a Riga, dei regali e dei souvenir che gli inondavano le stanze, della famiglia e della maestra a cui rimase a lungo legato, la russa Rosina Lhévinne con cui studiò alla Juillard School e che lo persuase, a suo tempo, a iscriversi alla gara.

C’è spazio anche per sodalizi e amicizie sincere, per le emozioni, per dicerie su una presunta omosessualità. Un testo storico capace ancora di far sognare, anche nel bel mezzo di una delle pagine più buie del Novecento, consci che l’arte sia in ogni tempo la vera e sola vittoria.