Metti Beckett a Napoli: con Lello Arena a Borgio Verezzi un “Gódot” tra farsa e tragedia

Un eterno presente in cui si ripetono gesti feroci e grotteschi, aspettando qualcosa o qualcuno che non arriva. Scarnificando, arrivando all’osso più volte nominato, “Aspettando Gódot” è soltanto questo. Ma, affinché il concetto si imprima sulla pelle di chi guarda, è necessario ripristinare l’equilibrio trovato dall’autore, l’irlandese Samuel Beckett, Premio Nobel per la Letteratura nel 1969, fra le due sfumature dominanti del vuoto che alberga dentro e fuori di noi: quella comica, assurda, e quella tragica, lacerante, di un essere umano che non sa perché vive.

Questo equilibrio difficile è, a nostro avviso, a volte centrato, a volte meno, nella lettura di “Aspettando Gódot” andata in scena l’altra sera nell’ambito del Festival Teatrale di Borgio Verezzi, pièce che ha sancito il ritorno di Lello Arena nell’amatissima piazza Sant’Agostino. La regia di Massimo Andrei – che interpreta anche Estragon “Gogo”, mentre Arena è Vladimir “Didi” – porta la storia a Napoli, servendosi anche di una scenografia essenziale, quanto efficace: sullo sfondo di una pianura al crepuscolo, sulla quale spicca un traliccio dell’alta tensione, sono sistemate due pile di cartoni e due panchine di ferro, accanto a un’edicola votiva illuminata da un chiarore flebile. Qui si ricrea lo spaccato della periferia partenopea che, oltre ai due clochard protagonisti, vede il passaggio di altri personaggi. E sono subito evidenti le libertà dal testo di Beckett, nella traduzione di Fruttero: il primo a comparire in scena è un personaggio femminile, interpretato da Elisabetta Romano che, a voce nuda, comunica subito la dolcezza melanconica di una terra piena di contrasti. Il canto fa da cornice all’ingresso degli altri personaggi, fra i quali il di lei promesso sposo, interpretato da Biagio Musella, proiettati nell’universo napoletano anche dai particolari: come il carretto di legno con il ritratto di Gesù e la scritta in rosso “Ha da veni’”, trascinato da Arena-Didi, o il frequente ricorso ad accenti e cadenze facilmente riconoscibili.

Massimo Andrei, Lello Arena e Angelo Pepe in “Aspettando Gódot” (foto Luigi Cerati)

Tra commedia e tragedia: un equilibrio difficile

Tuttavia, benché da un lato sembri azzeccata l’idea di trasportare Beckett a Napoli e di consegnare il tema dell’eterna attesa a una città che ha saputo da sempre raccontarla nelle sue mille sfaccettature – dalla musica di Scarlatti e Cimarosa a Eduardo de Filippo – a volte la costruzione drammaturgica pende un po’ troppo dal lato della farsa, soprattutto nel primo atto, lasciando in secondo piano il sentore fosco e tragico dei dialoghi. Le risate suscitate nel pubblico, che si vorrebbero amare, sono invece aperte, gustose: forse un indizio che qualcosa del testo originale si è perso. Ne è un esempio la scena, centrale del primo atto, di cui sono protagonisti Pozzo e Fortunato, interpretati da Carmine Bassolillo e Angelo Pepe: il primo vestito in pelliccia, il secondo legato a una catena, come da copione. Qui la condizione dell’uomo legato, lo schiavo impigliato in una rete, vira decisamente nel grottesco, senza soffermarsi sulla condizione atroce di un essere umano cui vengono gettate delle ossa di pollo e che, per il suo carattere accondiscendente, «andrebbe ucciso».

Una scena d’insieme in “Aspettando Gódot” (Luigi Cerati)

I toni oscuri, la tentazione al suicidio, l’eterna notte del cuore, il tempo che «passa comunque», nell’attesa di un qualcosa o un qualcuno – Godot, appunto – il cui arrivo per l’indomani è sempre annunciato da un messaggero, interpretato da Esmeraldo Napodano, salgono in superficie nel secondo atto, più misurato nei registri e nei toni quindi, a nostro avviso, più efficace. Tolte alcune cadute di stile, come la Madonna «wedding planner» o un’allusione banale alle droghe pesanti, pian piano il senso – o meglio, il non senso – della pièce di Beckett si dipana nelle parole lasciate finalmente nude: il senso di un vuoto impalpabile, che lega tutti in un destino, si concretizza nel «forse viene domani», ripetuto fino alla fine, e nel «dobbiamo avere paura, aspettare e avere paura», finché tutte le luci non si spengono: compresa quella che illumina una croce.

Tutto sovrasta l’appassionata recitazione di tutti gli interpreti e, in particolare, quella speciale di Lello Arena, applaudito a lungo l’altra sera a Borgio Verezzi, che ha promesso un ritorno «prima che passino altri dieci anni» e ha confessato l’amore per il Festival del borgo e per il suo pubblico: «Non succede sempre» ha detto «che si possa stare insieme così».