“Sono sinceramente convinto di aver fatto spettacoli migliori di Equus. Però non c’è niente da fare. Incontro dei sessantenni che erano allora ragazzini e che mi parlano di quello spettacolo come di un momento molto emozionante. Il che significa che quello spettacolo aveva una forza notevole”. Me lo aveva detto, alcuni anni fa, il compianto Marco Sciaccaluga commentando il trionfale spettacolo con cui aveva esordito nell’ormai lontano 1975 ad appena 22 anni.
Quei “sessantenni” che ancora ricordavano con emozione il testo di Peter Shaffer, ieri sera, erano di nuovo al Teatro Duse a rivedere Equus prodotto ancora dal Teatro Nazionale e questa volta, in una sorta di ideale passaggio generazionale, affidato per la regia a Carlo Sciaccaluga, il figlio maggiore di Marco.
Diciamo subito che Carlo si è mosso del tutto autonomamente e che si è visto ieri sera uno dei più belli spettacoli di questi ultimi anni, magnificamente costruito e altrettanto magnificamente interpretato, tanto che la platea in totale silenzio e crescente tensione lungo tutta la serata (oltre due ore e quaranta la durata) alla fine è scattata in un interminabile e calorosissimo applauso.
Le analogie fra i due spettacoli si limitano essenzialmente a due elementi. Si sono riviste le splendide maschere dei cavalli che erano state una nota caratteristica e particolarmente efficace sul piano drammaturgico di quella lontana edizione. Per quanto riguarda il testo, poi, Carlo ha recuperato la traduzione del padre, ma l’ha opportunamente aggiornata per renderla contemporanea: così, ad esempio, i jingle che canta il ragazzo per eludere le domande dello psichiatra sono tratte dalle pubblicità odierne.
La scena, ideata da Anna Varaldo, è uno spazio vuoto nel quale è collocata una passerella che scende a terra da un lato avvolgendo una pedana circolare e rotante posta al centro. Lì, immaginaria clinica per malati di mente, si sviluppa il rapporto fra lo psichiatra Martin e il giovane Alan che una notte, senza apparente ragione, ha accecato sei cavalli da lui adorati. Martin è incaricato di scavare nella mente di Alan. In realtà, però, scava anche nella propria, si interroga sulla sua vita, sui suoi fallimenti professionali e umani in un dialogo serrato fra passione fisica e passione mistica, fra istinto e ragione. In un drammatico confronto con la collega direttrice giunge a confessare di provare invidia per quel ragazzo che almeno per una notte ha “cavalcato” esaudendo i propri ardenti desideri. Un testo, insomma, di forte drammaticità: ci sono dialoghi tesi e coinvolgenti, ma non è solo “teatro di parola”, la presenza incombente dei cavalli, la famosa scena del nudo integrale, offrono momenti di notevole spettacolarità.
Carlo Sciaccaluga ha governato con intelligenza la materia, scavando nei personaggi (tutti scolpiti con estrema cura nella gestualità e nella intonazione), lavorando attentamente sulle luci (di Aldo Mantovani) e sull’incisivo commento musicale (di Andrea e Leonardo Nicolini, rispettivamente padre e figlio: un fluire sonoro a tratti discreto, a tratti incombente, perfettamente aderente alla narrazione), e regalando momenti di grande teatro: così è la scena dei cavalli, cupamente cadenzata dal ritmo degli zoccoli al trotto, e così è naturalmente la citata scena del nudo integrale in cui Alan cerca invano di fare l’amore con la sua ragazza, ma la “presenza” dei cavalli glielo impedisce.
Il cast è eccellente. Il giovanissimo Pietro Giannini è un Alan di forte drammaticità, si muove con autorevolezza, affronta i lunghi monologhi con un impeto e una precisione espositiva inappuntabile. Luca Lazzareschi costruisce la figura controversa dello psichiatra con lucida intelligenza, in un’alternanza fra sconforto e partecipazione emotiva al dramma del giovane paziente. Bravissimi anche gli altri: gli ottimi Pia Lanciotti (la madre di Alan) e Paolo Cresta (il padre) e poi Camilla Semino Favro, Giulia Prevedello, Michele De Paola.
Repliche fino al 6 aprile. Uno spettacolo da non perdere.