Dal Festival Mahler a Martinafranca: appuntamenti estivi imperdibili

Ci sono due luoghi “del cuore“ in Italia per gli adoratori di musica: il primo è per gli appassionati della sinfonia e della musica strumentale che visse i suoi ultimi respiri nelle note indimenticate di uno dei suoi più celebri artisti, come Gustav Mahler ; il secondo è  per gli sfegatati dell’opera lirica dagli albori del barocco di Haendel  fino al dissolvimento della stessa di Giacomo Puccini e della Giovane Scuola del XIX secolo; il primo si chiama Toblach, o Dobbiaco, situato nell’estremo nord, sopra Bolzano e il secondo nel profondo sud, Martinafranca, una verde collina in provincia di Taranto, terra quest’ultima di Giovanni Paisiello, l’illustre compositore che portò lo splendore della musica della scuola napoletana alla corte di Caterina di Russia a San Pietroburgo.

Per un’insana passione di chi scrive, diviene imprescindibile percorrere lo “Stivale” per abbeverarsi a tanta bellezza e, quando torni a casa, comprendi realmente quanto tutto ciò che hai provato ti abbia rigenerato.

Da nord….

Una nota sul luogo dove si svolgono le Settimane Musicali dedicate a Mahler. A pochi passi da Dobbiaco, infatti, in Carbonin Vecchia, nota un tempo come Altschluderbach, il musicista boemo trascorse gli ultimi anni della sua non lunga vita, incantato dalla poetica e serena bellezza degli ampi terreni vergini ricoperti di solo prato dove si era fatto costruire una piccola casetta di composizione dove aveva creato i suoi ultimi tre capolavori : Das lied von der erde ( Il canto della terra), la Nona sinfonia in re maggiore e il primo movimento della sua Decima e incompiuta sinfonia in fa diesis maggiore, Andante-Adagio l’unico scritto per intero dal musicista e composto nell’ultima estate del 1910.

Dobbiaco, 19 luglio 2024 Auditorium Gustav Mahler; Orchestra Sinfonica di Milano diretta da Michael Sanderling, figlio di secondo letto di Kurt Sanderling, maestro tedesco che ricordo di aver sentito dai dischi di mia madre. In programma la Sinfonia n.6. L’orchestra straborda di elementi nel piccolo Auditorium di montagna. Un’impressione di annichilimento al termine del primo tempo, diretto e suonato con una veemenza e una foga da levare il fiato. Affascinanti i due tempi di mezzo con l’inserimento di uno stonato campanaccio ( voluto ) nello sviluppo dei movimenti. Ma l’inquietudine, la sofferenza della fragilità dell’autore lascia stupefatti quando il gigantesco martello sbuca dalle percussioni, sferrando il colpo fatale che sbalordisce tutti. E’ l’unica sinfonia mahleriana che finisce in tonalità minore. La minore, che lascia svuotati , aggrappati alle ultime note dei contrabbassi gli ascoltatori , increduli, stupefatti di quanto possa raggiungere il dramma interiore di un uomo, preveggente delle future disgrazie della sua vita. E’ un lavoro estremamente faticoso e difficile apprezzare tutti i significati che la complessa orchestrazione dell’opera esprime, tanto si intersecano incessantemente per tutta la durata della sinfonia (80 minuti).  Ciò che rimane nelle orecchie e nel cuore di ciascun ascoltatore, è una testimonianza dell’indicibile, dell’insondabile mistero della vita umana. I suoni onirici del primo corno, le note secche e beffarde delle trombe con sordina, le rullate sonore e potenti dei timpani, le note ora cupe ora terebranti della Gran Cassa. Le melodie acute e dissonanti dei violini che sembrano far rivivere climi da film di Hitchcock, i cupi e marcati ritmi dei bassi e dei violoncelli dialogano come in una danza con le armonie dei legni tra cui emerge lo squillante ottavino… Un vero miracolo…!

….a sud

Ma scendiamo a Sud , a Martinafranca, paese natale di Raimondo Grassi (padre del Paolo Grassi poi sovrintendente del Teatro alla Scala) e marito di Ines Platesteiner, bavarese, appassionata di lirica, teatro e letteratura. Pare che l’amore per il teatro di suo figlio Paolo sia legato a questo. In ogni caso padre, madre e il figlio Paolo trascorrevano le vacanze estive proprio nella cittadina del Capocollo mentre il padre Raimondo, nel resto dell’anno, era a Milano, dove collaborava col giornale “Il sole” occupandosi di pubblicità e tenendo rapporti con l’Ente Fiera di Milano. Nato nel 1975 per iniziativa di un gruppo di appassionati musicofili guidati da Alessandro Caroli, col supporto di Franco Punzi, allora sindaco di Martinafranca e di Paolo Grassi, allora sovrintendente al Teatro alla Scala, ha ottenuto per ben 10 edizioni il Premio della Critica Musicale Franco Abbiati, e 5 anni fa l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica Italiana. Da due anni direttore del Festival è stato nominato Sebastian Schwarz, sovraintendente del Regio di Torino e direttore musicale, riconfermato il nostro conterraneo e stimato Fabio Luisi.

Il Festival s’impone fin dalla nascita per scelte inusuali e originali e per la qualità degli artisti che ne compongono i cartelloni. Sono scelti, di anno in anno titoli di opere dimenticate o sottostimate per la cura di edizioni critiche e per la fedeltà degli intenti dei compositori. Grande prestigio negli anni passati è venuto dal sostegno di un grande esperto della vocalità internazionale, come Rodolfo Celletti che ha fondato una vera e propria scuola di cantanti. Da un modesto melomane qual sono, ho potuto vedere solo qui, opere rare come Margherita d’Anjou di Jacob Meyerbeer, Ecuba di Nicola Manfroce o  Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj.

Quest’anno, non posso dire , a parte l’ultimo spettacolo, di aver partecipato ad opere insolite. Ciononostante, la Norma diretta dal nostro Luisi, al suo debutto nel titolo, è stato un grande spettacolo. Grande voce, grande presenza scenica quella di Norma di Jaqueline Wagner, soprano americano, impeccabile nei filati discendenti, pieno controllo dell’emissione vocale, dizione perfetta che non si abbandona a canto urlato o sguaiato. Bravina, ma meno esperta la Adalgisa della romena, Valentina Fracas. Un po’ urlatore senza gusto il Pollione di Hernandez. Ha voce ma esagera. Svetta su tutti la pulizia, la sensibilità, il gusto di Fabio Luisi che mantiene omogeneo il canto del coro e la lodevole e gagliarda orchestra del Petruzzelli di Bari, con rispetto della partitura e stimoli continui sulle diverse sezioni di archi, legni e ottoni. All’inizio del secondo atto, l’introduzione dei violoncelli, che accompagnano il pensato e non realizzato infanticidio ideato da Norma che vorrebbe versare il sangue dei figli avuti da Pollione, per vendicarsi del tradimento, è condotto da una compostezza, sobrietà ed eleganza di Luisi che lascia sopraffatti. Lo stesso maestro, con cui sono andato a rallegrarmi a fine spettacolo, mi ha confermato che la Norma di stasera è una voce importante e di valore. Nonostante la povertà delle scene, che a Martina sono complesse da realizzare, il secondo atto è stato un crescendo di arie belliniane di prim’ordine, tra le più struggenti e tragiche della storia del melodramma, che sono state interpretate con grande impegno e fedeltà allo spirito preromantico di Bellini che, non dimentichiamo, ha ispirato uomini come Wagner, Schopenauer, Verdi ed altri con la pura bellezza del suo canto. Nel finale dell’opera che costituisce la catarsi dei temi di amore e morte , il  gesto raffinato di Luisi che fa brillare le varie sezioni dell’orchestra, rendendole vivide e palpitanti, esprime la sublimità e la grandezza del “ cigno di Catania “ nel suo capolavoro assoluto. Applausi!

Il giorno seguente ci troviamo al Teatro Verdi, a cento metri dal Palazzo Ducale e siamo immersi nell’arcana e fascinosa atmosfera del barocco:  Ariodante  di Georg Friederich Haendel . Credo proprio che certo teatro si sia in grado di apprezzarlo dopo una certa decade di età… Il teatro è gremito in ogni ordine di posti, platea e balconate comprese. Il lamento di Ariodante per il momentaneo tradimento di Ginevra è poesia in musica. Arie col “da capo” ripetute infinite volte, ma ogni volta venate di una ferita diversa. Toccante al proposito la celebre aria “ scherza infida” dove i versi di Ariosto e la musica di Haendel  creano un impasto sonoro che arriva a poco a poco nel profondo degli ascoltatori. Sardelli, dotato di grande conoscenza del repertorio segue scrupolosamente e sensibilmente i singoli cantanti col suo eccellente Ensemble preciso e impeccabile. Il pubblico, totalmente assorbito da tanta bellezza, prova lo stesso fremito di sgomento e di dolore che l’inarrivabile Cecilia Molinari (Ariodante) gli trasmette in modo semplice ed autentico, in questo momento sospeso, indimenticabile. Al termine dello spettacolo ovazioni, urla e tifo da stadio per gli artefici di sì grande trionfo.

E giungiamo alla terza  serata:  Aladino e la lampada magica composta da Nino Rota e rappresentata in prima assoluta al Teatro San Carlo di Napoli nel 1968. Libretto di Vinci Verginelli da Le mille e una notte.

Ospitata nell’ampio spazio del cortile del Palazzo Ducale, la scena iniziale e finale è costituita da un enorme biblioteca pensata dalla acuta regista italoargentina, Rita Cosentino col contributo di Leila Fteita per le scene e i costumi. Una maestra illustra ai suoi piccoli allievi come nei libri sia custodito il mistero della “conoscenza” e, dopo aver fatto consultare loro alcuni libri , li riaccompagna via, dimenticando un bambino, che, attratto da un libro da lui trovato, si sofferma a leggerne la storia… Si tratta appunto di Aladino e la lampada magica. Il contenuto della fiaba originaria non è tradito, anzi è rispettato con la musica che assume un ruolo di accompagnamento della storia e fa scivolare l’uditorio dentro di essa con una certa fedeltà alla tradizione. Il segreto che si nasconde nello svolgimento della fiaba-opera è il desiderio di crescere del bambino per diventare adulto e sfidare e superare quelle difficoltà che toccano a tutti i mortali. Il desiderio di affrancarsi dalla povertà, quello di riuscire ad amare la donna più bella e quello di vivere nella gioia e in armonia con l’anziana madre i giorni futuri. L’uomo non è tale se non sa tornare bambino, e muoversi nella semplicità e nell’amore. Nino Rota, più noto come compositore per la cinematografia, ma in realtà creatore di capolavori autentici, come Il cappello di paglia di Firenze e Napoli milionaria, ha quasi 15 anni quando va in scena il 25 aprile 1926 la prima esecuzione postuma di Turandot di Giacomo Puccini, tratta dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, ispirata alla raccolta I mille e un giorno, speculare alle Mille e una notte musicate in Sheherazade da Rimskij Korsakov e anni dopo da Rota stesso nella fiaba di Aladino tratta da Le mille e una notte. L’ambientazione orientale che incanterà l’ultimo Puccini con la principessa di gelo, contagerà anche Nino Rota che appunto in questo lavoro, darà una sorta di continuità con gli epigoni delle opere del secolo breve. Tornando all’opera, è una bella fiaba, dipinta da una musica che si ispira al fantastico e al soprannaturale, che aderisce bene alle scene. La madre di Aladino, che vive in povertà, è figura credibile, come è credibile l’entusiasmo di Aladino che affronta e supera le prove che gli possono portare la felicità, il denaro e la bella principessa Badr al Badur di cui si invaghisce. Comprensibile anche il rovescio della medaglia, quando il Magrebino sottrae la lampada magica alla moglie di Aladino, lasciando il giovane nella disperazione che poi con la fortuna del genio dell’anello riesce a raggiungere la sua sposa e tornare ad essere felice. In qualche modo Rota presenta una fiaba che parla ai bambini ma coinvolge anche gli adulti nel bene e nel male. Il sapore che lascia quest’ultimo spettacolo, quando la brezza notturna di Martinafranca si alza e abbassa le temperature a 23 gradi, è quello dolce amaro della vita reale.  Rota è ispirato da una musica tonale, che guarda alle dissonanze dell’ultimo Puccini, mantenendo uno stile sinfonico novecentesco, vivacizzato da colori orchestrali luminosi e seduttivi che aderiscono bene ai contenuti fantastici ed esoterici della fiaba. Bene l’attenta direzione del maestro Lanzillotta che ha condotto con impegno e duttilità la brillante orchestra del Petruzzelli. Buono l’Aladino di Marco Ciaponi, dotato di bello squillo di tenore, interessante la voce della principessa Badr Al Badur , Claudia Urru, lodevole la prestazione della madre di Aladino, Eleonora Filipponi e ottimo l’apporto di Marco Filippo Romano nel ruolo del Mago Maghrebino. Applausi per tutti.