Era il 1976 quando per la prima volta andai, in veste professionale, ai Parchi. Scrivevo allora per il settimanale “Corriere del pomeriggio”. All’epoca i giornali dedicavano ampi spazi alla manifestazione. Per l’apertura del Festival curai addirittura una intera pagina, un lenzuolo in rapporto ai formati odierni. Fu, quel 1976, un’annata intensa per il Festival. E una rivelazione per me che mi accostavo a quel mondo da neofita. Vidi Vittorio Biagi con la sua Compagnia di Lione, mi calai nel suggestivo folklore di Tahiti, mi entusiasmai alla classe di Vassiliev e della Maximova.
Iniziò allora un lungo rapporto con il Festival che per molti anni ha rappresentato per me, ad ogni suo ritorno, una appassionante e divertente avventura. A Nervi mi portava non solo il mio lavoro di critico musicale, ma anche quello di collaboratore della Rai per la quale, nel corso di diversi anni, ho realizzato con le registe e amiche Lea Landi, Marisa Gazzo e Grazia Galardi, una serie di programmi nazionali e regionali.
Si lavorava, pertanto, ai Parchi dal mattino alla sera. L’obbiettivo, naturalmente, era quello di non raccontare solo quanto accadeva sul palcoscenico, ma anche il «dietro le quinte»: l’attesa dell’arrivo delle compagnie, l’aggirarsi intorno agli spazi dei camerini in cerca di un volto da riprendere, la visita nelle sale ballo ubicate a ridosso della passeggiata, le interviste.
Lì ho conosciuto Vassiliev e la Maximova, Maja Plissektkaja, la minuta Zizi, la Savignano, Alvin Ailey (lo ricordo allegrissimo davanti ad un ghiotto piatto di spaghetti), Roland Petit, Russillo. Ricordo giovani arrivati con tanta paura, ma anche con la ferra volontà di sfondare: penso a Maurizio Bellezza e Renata Calderini a Davide Bombana e Paola Cantalupo, Monique Loudieres (Opera di Parigi) o all’elegante Gabriella Cohen. Ricordo, ancora, Heather Parisi, sorridente, simpaticissima, naturale e spontanea nella sua emozione.
E ripenso, era il 1986, ad una piacevole chiacchierata con Sidne Rome (ospite insieme a Sandra Mondaini e Delia Scala della serata intitolata Mi.Lu), iniziata nei viali del Parco e finita allegramente davanti ai cancelli chiusi del Parco stesso (erano scoccate le 19!): di fronte alla prospettiva di tornare indietro e fare doppio cammino, la affascinante attrice americana, dopo un attimo di stupore (i begli occhi azzurri sgranati) optò per la scalata del muro di cinta. Per fortuna si affacciò un guardiano che ci aprì una porticina consentendoci di uscire ed evitando al sottoscritto una penosa, brutta figura.
Ciò che affascinava del Festival negli anni Settanta e Ottanta non era solo quel che si vedeva sui palcoscenici, normalmente di alto livello artistico, ma era anche l’atmosfera che si respirava. In un’epoca in cui il Teatro lirico, quello con la T maiuscola non esisteva e ci si doveva accontentare del pur adorabile Politeama Margherita, spazio angusto, senza quinte, cinema-teatro prestato all’opera e alla sinfonica, i Parchi offrivano un colpo d’occhio straordinario. Sembravano pensati apposta per la danza. La ampia platea degradante del Teatro Taglioni, la struttura del palcoscenico incastonata tra le piante. E poi il piccolo Teatro Cecchetti, un gioiello nel quale alberi e fiori diventavano l’effettiva scenografia. E in questo contesto nell’imminenza dello spettacolo si avvertiva quasi un senso di sacralità: era l’arte che si animava nella natura.
In questa magia straordinaria anche i limiti oggettivi degli spazi all’aperto venivano ampiamente ripagati dalla suggestione della scena: i parcheggi sovraffollati, le zanzare, l’umido, i treni che rallentavano per non disturbare ma disturbavano lo stesso, a volte anche di più. Nel momento in cui imbruniva e i riflettori si accendevano si dimenticava tutto ed era la danza a vincere, sempre e comunque.
Naturalmente in quegli anni ebbi numerose occasioni per incontrare Mario Porcile (qui nella foto con il giovane Nureiv), l’inventore del Festival.
Lo intervistai la prima volta nel 1977. Quel che mi piacque subito di lui fu l’affabilità e la simpatia umana. Non era uno che si nascondeva, che parlava il politichese. Si vedeva subito che ci credeva e che considerava la danza e di conseguenza il Festival la sua vita.
Proprio il 1977 segnò il temporaneo ingresso dell’opera nel Festival. Nella diffidenza di molti, sottoscritto compreso, che non credevano nella possibilità di imporre i Parchi come arena lirica (l’opera ha altre esigenze e palcoscenici ben più prestigiosi d’estate) si fece Carmen. Si bissò l’anno successivo con Aida. Ma furono esperimenti votati al fallimento; e ci si mise anche Giove Pluvio a boicottare l’opera rovesciando quel che poteva.
Insomma dopo il 1978 di opera non si parlò più.
L’inserimento della lirica nel contesto dei Parchi era stato fortissimamente voluto dall’allora sovrintendente, sen. Gelasio Adamoli che si spense proprio nel ’78 quando era ancora in carica. L’arrivo di Adamoli alla sovrintendenza cambiò sensibilmente la gestione del Teatro. Il precedente sovrintendente, Giovanni Ugo, era un risparmiatore attento, pignolo nei bilanci. Adamoli tendeva a spendere assai di più e l’opera a Nervi fece saltare il bilancio che scivolò pericolosamente in rosso. In una conferenza stampa, io, allora giovane e inesperto cronista, chiesi ad Adamoli le ragioni di tale politica, diciamo, allegra. E lui mi rispose: «Caro ragazzo, i soldi bisogna spenderli, altrimenti non te ne danno!».
All’epoca mi sembrò una risposta assurda, ma con il tempo ho capito che aveva ragione lui.
Quando la legge sui Teatri Comunali portò alla ripartizione dei finanziamenti statali, la torta fu divisa tenendo conto delle spese fino ad allora mediamente sostenute dai singoli Enti Comunali. E Genova che spendeva pochissimo grazie a Ugo finì al penultimo posto nei finanziamenti! Il problema è che ispirandosi al principio del sen. Adamoli e confidando nel fatto che lo Stato ha sempre ripianato i deficit i Teatri hanno continuato a spendere senza controllo fino a pochi anni fa, quando si è capito, ma era ormai tardi, che l’epoca delle vacche grasse era finita!
Ma torniamo a Nervi con un po’ di storia.
“Genova si propone dunque di offrire ogni anno agli amatori la visione antologica delle varie tendenze estetiche e stilistiche della danza, attingendone gli elementi nel vasto mondo, secondo criteri razionalmente sviluppati… si vuole inoltre realizzare un’azione divulgatrice a vasto raggio incoraggiando con ogni mezzo il riavvicinamento del pubblico all’arte del balletto….”
Così si legge nel libretto di presentazione del primo Festival di Nervi.
Era il 1955. La danza viveva allora in Italia momenti molto difficili. Nell’Ottocento il balletto (che nel nostro Paese vantava le proprie origini, sin dal «ballet de cour» esportato in Francia) era considerato la naturale appendice ad uno spettacolo operistico. Le danzatrici erano, in taluni casi, oggetto di adulazione al pari delle colleghe cantanti. Celebri coreografi avevano fatto fortuna in Italia e portato la nostra arte all’estero. Basta citare i nomi di Filippo Taglioni o di Enrico Cecchetti, artefice del grande sviluppo della scuola russa, maestro di artisti quali Anna Pavlova, Fokine, Nijinsky, Massine.
Poi era iniziata la parabola discendente. I grandi Teatri concedevano sempre meno spazio allo spettacolo coreutico e il ventennio fascista diede il colpo di grazia alla danza, con una serie di pregiudizi, ad esempio, la presunta scarsa virilità dei ballerini, in contrasto con gli ideali del regime. La danza era, insomma, svilita al ruolo di Cenerentola del mondo dello spettacolo italiano.
Con i Balletti di Nervi si invertì la tendenza. Se oggi la nostra penisola pullula di Festival, rassegne, stages, il merito va in parte attribuito a quel primo Festival che, nato con un indubbio atto di coraggio, conquistò immediatamente un posto di rilievo nel panorama internazionale, attirando gli artisti più celebri e prestandosi a trampolino di lancio per giovani destinati a scrivere il proprio nome nella storia della danza odierna.
Nel 1954, dunque, Porcile ebbe la felice intuizione di inventare il Festival e l’ancor più felice idea di ambientarlo nello splendido Parco di Nervi. L’organizzazione fu assunta dall’Ente Manifestazioni Genovesi e l’8 luglio 1955 il sipario si alzò per la prima volta.
Credo valga la pena ricordare che negli stessi anni nasceva anche il Concorso Internazionale di violino “Premio Paganini”. Mi sembra che la Genova di quel tempo (che usciva dalla guerra privata di tutti i suoi palcoscenici, con la sola eccezione del Teatro Modena) avesse il coraggio di guardare avanti, di osare, di cercare una propria, collocazione culturale e artistica in un contesto non nazionale, ma internazionale.
Il Festival n. 1, diretto da Mario Porcile e da Ugo Dell’Ara, fu inaugurato dal Balletto del Teatro Nazionale Croato di Zagabria. L’impostazione del cartellone chiariva immediatamente l’intento dei creatori di offrire la più ampia panoramica possibile degli stili di danza mondiali. Divisi fra il grande palcoscenico dei Parchi e il più contenuto Teatro Duse, si avvicendarono così complessi internazionali di prestigio. L’American Dance Theatre propose tre giovani straordinari come Glen Tetley, Arthur Mitchell e John Butler, nomi che si ritroveranno in altre edizioni del Festival. Arrivarono anche l’Azuma Kabuki e il Grand Ballet du Marquis de Cuevas agli ultimi anni della sua esistenza. Da segnalare pure lo spettacolo del maestro espressionista Harald Kreutzberg e il recital offerto da Alicia Markova che si esibì in pagine del grande repertorio accanto ad un giovane astro emergente, il franco-jugoslavo Milorad Miskovitch.
Nel 1957 Mario Porcile rimase solo alla guida della manifestazione. E proprio quell’edizione rimase fra le più importanti nella storia del balletto. Il 20 luglio, infatti, nell’ambito dell’Omaggio all’Ottocento italiano Anton Dolin firmò un revival del celebre Pas de quatre di Cesare Pugni, danzato il secolo scorso dalla Taglioni, dalla Grisi, dalla Graham e dalla Cerrito e ora affidato a tre grandi del momento (Yvette Chauvirè, Alicia Markova e Margrete Schanne) e a una giovane italiana, in pratica al suo debutto su una ribalta internazionale, Carla Fracci. Da segnalare che nella Ouverture per le regine creata da Ugo Dell’Ara quale introduzione al Pas de quatre, si esibì anche Paolo Bortoluzzi formatosi con Vittorio Biagi nella scuola genovese.
Seguire tutta la storia è naturalmente impossibile. Ricordo solo alcuni eventi dei primi decenni del Festival.
La sesta edizione, nel 1962 rimarrà nella storia della danza per aver rivelato al pubblico italiano Rudolph Nureiev. Lo straordinario artista si presentò accanto a Margot Fonteyn con il Royal Ballet.
Non meno “storica” l’edizione successiva del 1964 inaugurata dal Balletto Nazionale Messicano e che contrappose, per la prima volta a Nervi, due grandi compagnie, due diversi modi di intendere la danza: il Bolscioi e il «Balletto del XX secolo» di Maurice Bejart, il quale nel 2000 assunse anche la direzione artistica della manifestazione.
Nel 1969, per la decima edizione, Mario Porcile, richiamato al timone (mancava dal ’64), ideò il Gran Ballo delle nazioni sul tema Dal Re Sole al jazz, un lungo viaggio nella danza dal «ballet de cour» alle espressioni coreutiche più aggiornate. Da citare ancora il Balletto Nazionale Olandese che portò ancora una volta alla ribalta nerviese Rudolf Nureiev affiancato dalla deliziosa Lynn Seymour.
Il 1976 chiuse un ciclo importante del Festival. Con alterne fortune, un inizio straordinario, seguito da qualche edizione meno scintillante per problemi di carattere finanziario, il Festival fino ad allora aveva mantenuto una fisionomia precisa, rispettando la struttura assunta nell’edizione inaugurale.
La formula ideata da Porcile appariva ancora vincente. Nervi rappresentava l’idea palcoscenico di confronto: lì arrivavano balletti classici, contemporanei, esperienze folcloriche. Lì si misuravano stili diversi, scuole differenti.
Il 1977, lo abbiamo già ricordato segnò l’ingresso della lirica ai Parchi. L’esito come si è detto fu deludente, ma di quell’edizione si può ricordare l’esibizione dell’American Ballet che propose un altro astro nascente della danza, Mikhail Baryshnikov.
Del 1980 vale la pena menzionare, nel rinato piccolo Teatro Cecchetti l’Orfeo di Russillo, un capolavoro.
Il discorso si fa lungo e va purtroppo interrotto. I miei ricordi si fermano al 2001 non senza citare ancora la strepitosa Sylvie Guillem protagonista nel 1999 di un travolgente omaggio a Bejart. Ufficialmente il “Festival” è finito nel 2004 per rinascere, morire, rinascere e ancora morire. Lasciata “La Stampa” nel 2002 e passato a “Repubblica” dove scriveva e tuttora scrive l’ottima collega Monica Corbellini, ho appeso penna e scarpette al chiodo disertando le ultime edizioni.
Per me dunque l’ultimo ricordo risale al 2001, una edizione in sordina, 4 soli spettacoli firmati da Bejart, con una lunga interruzione centrale per il G8. Ricordiamo tutti cosa successe in quelle terribili giornate, per cui ogni altro evento passò in secondo piano. Tuttavia fu applaudita calorosamente la serata iniziale al Carlo Felice con Lumiere appunto di Bejart. E commozione suscitò anche il ritorno di Mikhail Baryrsnikov a 25 anni dalla sua prima e ultima apparizione a Nervi. Invecchiato, certo, meno agile di un tempo, ma con una classe da grande artista.
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