E’ morto nella sua casa genovese Marco Sciaccaluga, stroncato da un male incurabile. Il prossimo agosto avrebbe compiuto 68 anni. Con lui si chiude definitivamente un’epoca per il Teatro Stabile. Era infatti l’ultimo rappresentante di quel gioiello che aveva saputo costruire nel tempo Ivo Chiesa e che lo stesso Chiesa aveva poi affidato ai due suoi pupilli allevati con intelligenza e generosità, Marco Sciaccaluga, appunto e Carlo Repetti, anche lui scomparso pochi mesi fa. Per chi scrive, questo articolo riveste un significato particolare. Conoscevo Marco Sciaccaluga da sessantadue anni, ci eravamo incontrati fra i banchi della prima elementare. E poi tutto il percorso scolastico insieme fino alla maturità, anno in cui decidemmo le nostre strade professionali: lui entrò nella Scuola di Recitazione dello Stabile, io mi iscrissi in Conservatorio. Due professioni diverse ma in qualche modo legate che ci hanno permesso di continuare la nostra frequentazione nel tempo. Di Marco ho apprezzato in tutti questi anni la onestà intellettuale, la serietà del professionista, la discrezione con cui sapeva entrare nelle vite degli altri. Ho ammirato il coraggio con cui ha saputo far fronte alle tante avversità che il destino gli ha riservato, dalla scomparsa dei due genitori quando era ancora giovane, alla più recente, dolorosissima scomparsa della moglie Valeria Manari che tutti ricordiamo come splendida scenografa e sua intelligente collaboratrice in spettacoli di rilievo fra i quali mi piace ricordare l’ultimo, La tragedia di Re Lear.
Per ricordare Marco, propongo qui di seguito una parte di un capitolo tratto dal libro Marco Sciaccaluga e il Teatro – Vita di un “minatore ostinato” (De Ferrari, 2019), in cui lui si sofferma sui suoi tre “maestri”, Ivo Chiesa, Luigi Squarzina, Anna Laura Messeri.

Anna Laura Messeri
La Messeri è stata la mia prima insegnante di teatro. Ancora oggi, quasi novantenne insegna nella nostra scuola che ha diretto per molti anni e che io ho sostituito alla direzione due anni fa perché lei non aveva più voglia di accollarsi le responsabilità e gli oneri di una direzione piena di faticosi adempimenti burocratici.
Era allora una giovane donna ma aveva già un carattere forte e a noi ragazzini pareva già vecchia. Una donna severa: la chiamiamo ancora oggi Robespierre. Aveva e ha un senso morale per il lavoro teatrale assoluto. Da quella grande pedagoga che è, ha mandato nel mondo del teatro generazioni di attori. Ancora oggi, anzi soprattutto oggi i ragazzi la adorano. Fino a una decina d’anni fa il rapporto era in realtà d’amore e d’odio perché sa essere molto dura e intransigente. Di qui il nomignolo che le è stato appioppato. […] Ancora oggi la considero una insegnante da tenere sul piedistallo. Perché se questa scuola ha raggiunto la posizione che ha ed è considerata una delle migliori o la prima addirittura del “Regno” lo si deve a lei e a Massimo Mesciulam, due insegnanti straordinari, molto diversi fra loro, ma entrambi grandi pedagoghi.

Luigi Squarzina
Quando sono entrato allo Stabile Squarzina era condirettore del Teatro. Lo sarebbe stato per poco perché nel 1975 ricevette l’incarico di dirigere a Roma. Ho lavorato con lui tre soli anni, ma per me è stato un incontro fondamentale. Per la prima volta ho avuto un rapporto con un grande regista, ho visto come lavorava, imparando moltissimo.
Squarzina aveva in particolare un’attitudine straordinaria, quella dell’analisi. Ancor prima di essere un regista era un intellettuale. Lo chiamavamo, non a caso, il professore.
Le prime prove di uno spettacolo si fanno a tavolino: in quelle riunioni il regista spiega il testo, il significato, la struttura. Ebbene, tenute da Squarzina erano delle lezioni indimenticabili. Poi, magari, quando andava in scena, denotava qualche rigidità: a me, ad esempio, come spettatore piaceva di più Strehler. Sentivo che lì c’era una poesia, un’arte che in Squarzina ritrovavo solo in alcuni momenti. Era un bravo direttore di attori. E ha avuto la fortuna di lavorare con un gruppo straordinario. E poi ha affrontato un teatro di notevole importanza, penso a tutta la stagione del teatro civile e poi ai suoi Goldoni che rimangono nella storia del teatro italiano.
Quando, dopo il provino che mi fece Squarzina mi scritturò come attore, secondo me aveva già l’idea di volermi poi “allevare” come assistente alla regia. Infatti già dal terzo spettacolo (La casa nova di Goldoni) fui chiamato come assistente dell’assistente che era Fenzi. Poi quando Fenzi fu impegnato in altre attività, diventai primo assistente. Squarzina mi stimava e si fidava, dandomi ampio spazio di manovra. Io non sono mai stato un bravissimo assistente alla regia. Un buon assistente deve essere un perfetto segretario, ordinato, deve scrivere tutti i movimenti, annotare ogni cosa. Oggi in teatro si usano i video, è tutto più facile; allora bisognava, per lasciare tracce concrete di una regia, annotare tutto sui copioni. Io per carità, lo facevo diligentemente, ma non lo trovavo un lavoro particolarmente appassionante. Mi interessavano altri aspetti del lavoro. Ovviamente obbedivo e scrivevo. I libri di regia dovrebbero ancora esserci in teatro.
Hai sottolineato che Squarzina si fidava molto di te e ti concedeva spazio. Possiamo ricordare a questo proposito l’allestimento de La foresta di Ostrovskij che debuttò al Duse nell’aprile del 1976…
Era il periodo in cui Squarzina andava spesso a Roma dove stava cercando di diventare direttore del teatro per cui era chiamato continuamente per colloqui e accordi. I pomeriggi provava la messa in scena di Ostrovskij con la compagnia che era in tournée per cui si seguiva il calendario delle recite e si strutturava la programmazione delle prove in base a quelle. Io ero il suo assistente. E capitava sovente che mi telefonasse per dirmi: prova tu oggi perché io non riesco ad arrivare. Io ero reduce dal successo di Equus e quindi avevo conquistato un po’ di credibilità presso gli attori. Ma c’era una comprensibile, crescente inquietudine. Ho dovuto tirare fuori la grinta e lavorare come se fosse uno spettacolo mio con un doppio handicap di partenza perché in realtà mio non lo era e proprio per questo conoscevo, naturalmente, il testo, ma non lo avevo approfondito. Comunque andò tutto bene e un giorno che si presentò alle prove Squarzina, la Volonghi con la sua risata tipica lo apostrofò così: “Cosa sei venuto a fare? Lavoriamo così bene con Marco!”.

Ivo Chiesa
Vorrei sottolineare un fatto. Io entrai allo Stabile con Chiesa e Squarzina accompagnato da una nomea di contestatore. Mi ricordo dibattiti accesi sul teatro del tempo in cui noi giovani un po’ rivoluzionari, un po’ sperimentalisti non risparmiavamo critiche alla gestione dello Stabile, ci sembrava poco coraggioso. Io ad esempio contestavo loro di non aver mai messo in repertorio Beckett, Pinter, Genet, cioè i più grandi autori che scrivevano in quel momento. Oggi sono dei “classici”, ma all’epoca rappresentavano la contemporaneità. Altri, invece, muovevano le loro contestazioni soprattutto con riguardo alla ideologia.
Tutto questo per dire che io non li ho amati subito, ho dovuto lavorare un po’ per capire la loro grandezza e cambiare le mie opinioni.
Con Chiesa è stato il rapporto più importante perché è iniziato nel 1972 con la mia scrittura ed è andato avanti fino alla sua morte. Perché quando nel 2000 ha lasciato il teatro, e siamo stati nominati Carlo Repetti ed io, ha continuato comunque a venire alle prove e a mantenere i contatti con tutti noi.
Chiesa era un genio nel suo lavoro. Nonostante la sua apparenza di anglosassone freddo, era un appassionato, spesso mosso da fuochi che cercava di reprimere. Con lui è stato un rapporto da servo a padrone, da figlio a padre. Io non me ne rendevo allora conto ma lui ha fatto su di me un investimento incredibile. A 21 anni mi ha dato la prima regia e poi mi ha affidato uno spettacolo all’anno e dagli anni Ottanta in avanti, due! Non c’è stato un anno saltato. Ci sono stati momenti di crisi, anche di scontri forti. In qualche caso Repetti ed io ci siamo trovati a contestare il suo modo di gestire il teatro, ma viva il cielo, era un teatro vivo, un teatro dove i giovani dicevano la loro. Ricordo giorni passati nel suo ufficio a discutere la programmazione della nuova stagione. Era puntigliosissimo, non delegava mai completamente. Ti dava una grande libertà, ma ti diceva sempre tutto quello che dovevi fare! Quando mi mandava a parlare con i registi stranieri mi impartiva ordini precisi! Quando mi affidò Equus mi inviò a New York a vedere l’edizione che si stava rappresentando lì. Mi raccomandò di assistere a tutte le recite della settimana. Io vidi la prima sera in cui recitava Anthony Hopkins e poi tornai a fine settimana perché subentrava Anthony Perkins… Nelle altre sere mi sono divertito a vedere tutti i musical possibili. Chiesa non lo ha mai saputo. Ma credo di aver fatto bene….
Chiesa, evidentemente credeva nei giovani, sapeva guardare avanti…
Certamente. Mi portava a Londra o a Parigi a vedere spettacoli, a conoscere persone, a creare contatti. C’erano i mezzi per farlo: oggi non sarebbe possibile. Ma se non si fa così i rapporti non si creano e viene a mancare gravemente una forte identità culturale.
Oggi questo Outlet che è diventato il teatro europeo sembra uno di quei ristoranti in cui trovi tutto. I ristoranti buoni sono quelli che hanno un menù limitato.
Riconosciute le grandi qualità di Chiesa, bisogna anche segnalarne un unico grande difetto. Era troppo poco sicuro del suo parere sulle cose e aveva un sacro rispetto dei critici. Se noi facevamo uno spettacolo e i critici ne parlavano male quello spettacolo diventava automaticamente brutto.
Posso citare due casi. Il primo riguarda la messa in scena nel 1988 di Arden di Faversham.
Venne naturalmente a seguire la prova generale e alla fine mi disse: “E’ un capolavoro, Marco, hai fatto un lavoro splendido”. Naturalmente ne rimasi contento, ma poi uscirono le critiche, tutte severe, e lui cambiò completamente parere.
Un’altra volta con Rosmersholm capitò l’esatto contrario. Alla fine della generale Chiesa si mostrò piuttosto severo, paragonò la mia regia a uno sceneggiato televisivo, insomma non gli piacque. Ci rimasi male ma poi uscirono recensioni incredibilmente belle a partire da quella di De Monticelli, un autentico inno. Le stesse ragioni per cui Chiesa mi aveva stroncato per i critici costituivano il motivo per osannarmi. Ne chiesi ragione a Chiesa e mi rispose: “Mi sono sbagliato”.