Piazza San Lorenzo si trasformerà sabato prossimo (ore 21,30 con repliche fino al 4 luglio) in uno straordinario palcoscenico per accogliere, in prima nazionale, La congiura del Fiesco a Genova di Schiller nella versione italiana di Carlo Sciaccaluga che ne ha curato anche la regìa. Il testo rievoca la congiura contro Andrea Doria ordita da alcuni suoi nemici (tra i quali Gian Luigi Fieschi) nel 1547 per spodestarlo. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Nazionale coinvolge come attori Simone Toni, Aldo Ottobrino, Barbara Giordano, Roberto Serpi, Irene Villa, Andrea Nicolini, Francesco Sferrazza Papa, Silvia Biancalana, Maurizio Bousso, Marco Grossi, Melania Genna, Chiara Vitiello. Le scene e i costumi sono di Anna Varaldo, le musiche di Andrea Nicolini.
Abbiamo chiesto a Carlo Sciaccaluga di parlarci del lavoro.
Come è nata l’idea di mettere in scena Schiller in piazza?
E’ stata una mia idea raccolta subito da Davide Livermore. Mi piaceva pensare di poter portare direttamente in una piazza storica della città, una grande storia genovese. L’obbiettivo di fondo è costringere i genovesi a guardare nel giardino segreto delle loro meraviglie. La nostra città ha dei tesori e se li tiene nascosti: una sua bella caratteristica è questa austerità della memoria, ma il rischio è di perdere i contatti con il proprio passato. Insomma riappropriarsi della propria identità. E Schiller ci ha fatto un grande regalo, rifacendosi alle fonti del cardinale de Retz e scrivendo la sua tragedia nel 1783. La data è importante: siamo negli ultimi anni della vita della Repubblica Genovese che aveva saputo resistere a re e imperatori mantenendo la propria indipendenza.
La realizzazione in una piazza non è certamente operazione facile
No è decisamente complessa perché occorre coordinare le necessità di varie categorie. Piazza San Lorenzo è uno spazio affascinante e di grande passaggio. Ma siamo riusciti a superare tutte le criticità. Sabato scorso abbiamo fatto una prova in piazza filata ed è stato bellissimo vedere come le persone si fermavano a guardarci. Mi piace l’idea di sperimentare e usare spazi alternativi, avviando anche una riflessione sul modello teatrale. In generale la frontalità imposta da un palcoscenico non mi fa impazzire. Questo spettacolo è immaginato per essere visto a 360°.
Suo padre Marco, regista che tutti noi abbiamo amato e che ci ha lasciato recentemente, rifacendosi a Umberto Eco, si considerava un minatore ostinato, ovvero un regista alla ricerca della verità, dell’interpretazione, in opposizione agli adepti del velame, ovvero a quei registi che usando scorciatoie più comode, sovrainterpretano attribuendo a un testo un loro personale significato. Lei è un adepto o un minatore?
Decisamente un minatore. Sono partito dal testo originale e me lo sono tradotto. D’altra parte ho studiato all’Istituto germanico e poi al Doria. Non potevo non avvicinarmi a questa tragedia di Schiller! Con mio padre abbiamo naturalmente parlato di questo lavoro. In casa conservo una sua copia del testo di Schiller che era un pallino di Ivo Chiesa, avrebbe voluto metterlo in scena anni fa. E nel libro di mio padre c’è appuntata una possibile distribuzione con Pagni, Lavia, la Pozzi. Nelle ultime settimane di vita, gli ho letto anche qualche pagina della mia traduzione. Avrebbe voluto leggerla per intero, purtroppo non lo ha potuto fare.
Domanda scontata per un giovane regista. Un sogno nel cassetto?
Domanda non facile. Amando Shakespeare direi Sogno di una notte di mezza estate.