La musica classica è un genere tra tanti, sicuramente non il più gettonato. ” Allora la cosa seria da fare – scrive Nicola Campogrande nel libro “Occhio alle orecchio” di Tea – è sapere che si agisce all’interno di una nicchia, in Italia stimata intorno al 4-6% della popolazione. Se un politico decide che è meglio spendere denaro pubblico per sostenere un festival pop anziché un teatro d’opera non ci si può opporre facendo riferimento a ragioni storico-culturali condivise”. Ma se, invece di parlare di condivisione o radici tradizionali o storiche si guardasse proprio (e direi semplicemente) al bicchiere mezzo vuoto?
E’ quello che ha fatto Roberto Iovino nella conferenza parte del ciclo al Museo dell’Attore dell’Associazione Amici del Carlo Felice e del Conservatorio N.Paganini intitolata “Davanti a lui tremavan tutte le biscrome: il critico musicale”.
Non è un mistero che le recensioni (soprattutto quelle serie, non scritte da un appassionato di musica o da qualcuno che si considera intenditore solo perché sa fare qualche accordo con la chitarra o canta ad orecchio) siano merce rara nei giornali e che riguardino pressoché l’Olimpo della grande lirica. Niente circoli minori, quasi inesistente lo spazio dedicato alle giovani rassegne, agli emergenti o ai saggi di circoli privati o del Conservatorio. Peccato che senza poterne parlare al largo pubblico la musica resti senza ossigeno, senza la capacità di attrarre nuovi adepti o semplici curiosi. Si è quasi perso anche un mestiere, prezioso come un termometro, capace di veicolare la buona sorte o l’inadeguatezza di una carriera, capace di stimolare il confronto, persino di dare spunti per le rassegne di musica e prosa, che altrettanto a malincuore spesso non sono affatto sincroniche seppure nella medesima città. Il critico non sputa sentenze: stimola la riflessione.
Così con fare istrionico Roberto Iovino ha dimostrato, per l’ennesima volta, le caratteristiche di quella razza in via di estinzione che lo guarda da decenni come esempio paradigmatico per equidistanza, lucidità e franchezza. Ci si potrebbe attardare nei ricordi, in quel percorso di vita che lo ha unito, dai banchi di scuola al lavoro, con Sciaccaluga oppure con Sanguineti, ma la realtà prende presto il sopravvento. Viene da sorridere a quella definizione portata come provocazione dal relatore sul critico musicale così come dipinto dal Sacripante di Circassa del 1893, con la garbata presa in giro di una categoria, se non fosse altro che troppo spesso è svilita anche dai giornali, che oggi li considerano alla stregua di collaboratori esterni, che danno credito a pochissime grandi firme. Il critico poi, una volta costruitosi la credibilità sul campo, deve lottare per conquistare uno spazio, “sono finiti i tempi di Carlo Marcello Rietmann (Genova, 15 ottobre 1905 – Genova, 27 novembre 1981)”, giornalista, critico letterario, commediografo e compositore italiano sapeva dare spazio anche ai giovani”, aprendo la strada a un acerbo Iovino, già di acclarato talento.
Roberto Iovino passa così in rassegna i ferri del mestiere in un excursus tecnologico dalla macchina da scrivere alla dettatura telefonica, ai fax, al sistema Olivetti M 10 (antesignano del portatile dato ai collaboratori esterni con un visore di circa 8 righe), sino all’e-mail e ad internet. Un percorso che ha sveltito l’inoltro del materiale a cui non corrisponde lo stesso tempo dilatato dei giornali di una volta: provate oggi a mandare un pezzo alle 22 e vedrete se compare nelle pagine dei giornali. C’è stato chi dopo il teatro di prosa o di musica, recentemente, scriveva recensioni alle due di notte, impaginava, caricava le foto e, dopo il vaglio della mattina successiva trovava su internet il pezzo, sezione eventi, ma questa è la pura passione individuale, un sacro fuoco che con la prassi non ha nulla a che fare.
Come si risolve? Con recensioni che si basano sulla prova generale e su una visione parziale della prima (ahimé!) per comparire sulla carta stampata il giorno dopo, con rischi altissimi. Dai concerti in cui la soprano si ritirava e così compariva sul web ma non sul cartaceo dove “incanta o strega il teatro”, sino agli eventi ben accolti dal pubblico all’inizio e clamorosamente fischiati sul finale che restano fermi al primo atto e sull’inchiostro, ma solo lì, vengono dichiarati grandi successi.
Il critico è un’interprete, traduce in parole dell’ascolto. La responsabilità è anche nostra se oggi è un mestiere tanto limitato: vuoi per le politiche di marketing (se non pubblicitarie), vuoi per il basso livello che si accetta. Perché spesso si confondono l’accessibilità, la chiarezza dello scritto con l’incompetenza. Eppure quanto era fruibile un pezzo e al contempo quanto era profondo se recava la firma di Massimo Mila? Oggi invece il lettore, in genere (e con fortunate eccezioni) si accontenta. Si finisce per acclamare alcuni giornalisti, tra i pochi rimasti, come se Floster Jenkis fosse Luciana Serra. Cronisti dai non chiari percorsi lavorativi vestiti da critici, che spesso non colgono nemmeno le giuste sfumature di un pezzo di colore.
Ecco Iovino -come voler dire c’è speranza, i grandi ci sono stati e torneranno – leggere sul finale tre articoli storici sull’apertura del Carlo Felice, di cui si consiglia a tutti la ricerca: Lorenzo Arruga ( Evviva è nato il Carlo Felice), Michelangelo Zurletti (Quel Manrico Furioso) e Rubens Tedeschi (Alla Festa del Carlo Annoiato). Tripudio di infiorettate, apoteosi della scrittura e caustiche riflessioni.
E allora sì, guardare al bicchiere mezzo pieno riempie di speranza.