Nel centenario della morte di Puccini, che si è aperto in anteprima, la scorsa estate, con polemiche di fuoco sugli aggiornamenti delle sue opere e che prepara fuori d’artificio per l’imminente 2024, può essere un curioso complemento trovare, in un cartellone di prosa, una diversa Turandot: è quella di Carlo Gozzi, affidata alla regia di Andrea Collavino prodotta da Teatro Nazionale di Genova e i scena al Duse di Genova dal 5 AL 17 dicembre.
Basata si L’ histoire du prince Calaf e de la princesse de Chine offre, oltre alla possibilità di un confronto con il libretto operistico, anche quella di saggiare la tenuta dell’autore.
Certamente le alterne fortune di un autore che ha sempre vissuto sull’onda delle polemiche letterarie e ideologiche possono condizionare gli allestimenti contemporanei
Penalizzate da una certe corrente settecentesca stanca delle ripetitività della Commedia dell’Arte e fautrice di Goldoni, le fiabe teatrali di Carlo Gozzi hanno conosciuto infatti due grandi fiammate postume. In epoca romantica è tornato in auge per uno di quei classici corsi e ricorsi storici che portavano il pubblico e i critici ad anelare la fiaba e la fantasia contro un certo realismo borghese; tra le avanguardie del primo Novecento, la Russia di Meierchold in testa ma anche Vachtangov con una celebre Turandot messa in scena a Mosca nel 1922, è stato ripreso un po’ per gli stessi motivi, rinforzati da presa di posizione più definita ideologicamente . .

A questo punto? Che cosa propongono al pubblico il principe Calaf, Turandot, la principessa di ghiaccio che spinge verso la morte i corteggiatori con i suoi terribili enigmi, Adalma che invece vede nel matrimonio lo scopo della sua vita e il suo riscatto?
Sia pure in un impianto corale, i nostri tempi suggeriscono al regista un’esplicita e dichiarata attenzione a Turandot vista come una donna divisa tra l’esigenza di difendere la propria assoluta libertà, nei confronti del re padre e padrone prima ancora che dei pretendenti, la paura di amare e il desiderio di sciogliere le proprie riserve, come effettivamente fa nel lieto fine.
Non è una metamorfosi facile, da tradurre in scena se è vero che, come si dice, Puccini non si affrettò a chiudere la sua incompiuta anche per i dubbi che lo assalivano su questo punto.
In questa Turandot di Carlo Gozzi il cambiamento di rotta è sostenuto da una raffica di colpi di ironia che in tutto lo spettacolo serpeggia a volte fin troppo sommessa e che si rivela, liberatoria, negli ultimi passaggi . Nel finale dello spettacolo aumenta il ritmo e l’incisività degli interpreti, dopo qualche intermittenza dell’avvio.
Lisa Lendaro, Nicola Pannelli, Denis Ozdogan , Beatrice Fedi, Elsa Bossi, Davide Lorino, Luca Oldani, Andreapietro Anselmi, Graziano Sirressi, sfoggiano infatti una convincente fisicità e capacità mimica e mimetica ma, in alcuni casi, devono ancora mettere a punto un gioco all’apparenza ingenuo in realtà molto difficile, una recitazione che alterna versi linguaggio popolare e dialetto e che, soprattutto nei cambiamenti di ritmo, nelle accelerazioni o toni sussurrati crea qualche difficoltà di comprensione.
Negli anni Settanta del Novecento una messa in scena storica di Gozzi, La donna serpente, si era attenuta al diktat estetico “se favola deve essere favola sia”, sostenuta dai fantasmagorici costumi di Lele Luzzati”.che risolvevano in meraviglia un atteggiamento dell’autore complicato da allusioni e frecciate contro i concorrenti.
Qui le scene di Atelier Nostra Signora e i costumi di Sonia Marianni sono atemporali e neutri come per lasciare agli spettatori il compito di colorarli e anche di rintracciare tra i personaggi le maschere della Commedia dell’Arte, Pantalone, Brighella e Truffaldino. In complesso interessante, questa Turandot potrà diventarlo ancora di più quando un po’ di rodaggio fluidificherà, in scena e in platea, l’incontro scontro tra presa di distanza e coinvolgimento.