Il violino di Pizzetti

“La creazione di uno stile moderno nostro è stato il problema assillante della mia generazione. Quando questa generazione cominciò a pensare, l’unica musica tipicamente italiana era quella operistica ottocentesca e verista piccolo-borghese. Urgeva dunque scuotere a tutti i costi questa idea angusta e antistorica e ricondurre i musicisti prima e le masse più tardi a pensare che ben altre, più profonde, più varie erano le fondamenta della nostra musica». Così Alfredo Casella sintetizzò l’aspirazione ad un’arte nuova, sintesi di una solida tradizione italiana in parte da riscoprire e rivalutare con le nuove istanze europee. Il primo Novecento italiano è stato assai più ricco di fermenti e di sperimentazioni di quel che oggi si immagina.

Tralasciando le intemperanze futuriste o le esperienze isolate di compositori “trapiantati” all’estero, il problema può essere semplicisticamente sintetizzato così: da una parte  la Generazione dell’Ottanta (Casella, Pizzetti, Respighi, Malipiero) puntava ad un aggiornamento del linguaggio ricostruendo una letteratura sinfonica e da camera e oscillando fra il recupero del passato e l’attenzione per le avanguardie europee; dall’altra la Giovine scuola (capitanata da Mascagni e composta da Puccini, Leoncavallo, Giordano e, un po’ più distaccato, Cilea)  cercava un rilancio del teatro musicale nel rispetto di una tradizione plurisecolare. I primi si consideravano progressisti e accusavano di conservatorismo i secondi. In realtà, nelle dinamiche culturali non ci sono solo il bianco e il nero, ma tante sfumature di grigio. Il problema, cioè,  era assai meno lineare: la Generazione dell’Ottanta non disdegnò affatto di misurarsi con il Teatro e il linguaggio della Giovine Scuola fu tutt’altro che passatista.

Oggi molti degli autori che animarono la vita musicale del primo Novecento italiano sono pressochè sconosciuti o quasi al grande pubblico ed è una grave mancanza dei nostri Teatri e delle nostre Società dei concerti. Non solo perché certe pagine meriterebbero una presenza costante in repertorio, ma anche perché la mancata conoscenza del linguaggio di Pizzetti, come di Malipiero e Casella rende più ostica all’ascoltatore di oggi la comprensione delle generazioni successive, quella di Petrassi e Dallapiccola e, attraverso loro, quella dei Berio e dei Nono.

Queste riflessioni ci vengono suggerite dalla recente uscita di un interessantissimo CD dedicato al violino di Ildebrando Pizzetti, edito da “Da Vinci classics” e interpretato splendidamente da Ruggero Marchesi, violino e Federico Rovini, pianoforte.

Se il teatro di Pizzetti, spesso legato ai versi di D’Annunzio (che lo chiamava pomposamente “Ildebrando da Parma”) fa qualche volta una sua pur timida apparizione in qualche palcoscenico coraggioso, la sua produzione strumentale è davvero rara. Eppure Pizzetti è stato compositore di solida preparazione, abile nel rileggere la nostra tradizione alla luce di una esigenza linguistica aggiornata.

Il CD ne è una bella testimonianza, a cominciare dalla Sonata in la composta fra il 1918 e il 1919, in un momento storico dunque del tutto particolare che si riflette nella scrittura pizzettiana: a un primo tempo scuro che rimanda al dolore per la guerra e per le morti (Tempestoso) segue un Largo, una dolce preghiera per gli innocenti che lascia poi il posto a un movimento più vivace specchio della serenità ritrovata alla fine del conflitto bellico. Violino e pianoforte dialogano con eleganza, l’arco ha una intensa cantabilità supportata con varietà di atteggiamenti dalla tastiera.

Ineccepibile per affiatamento e qualità individuali la prova di Marchesi e Rovini.

Alla Sonata segue nel CD l’Aria in re maggiore del 1906 e soprattutto i Tre Canti del 1924 che mettono in luce ancora una volta il lirismo pizzettiano consolidato nella sua intensa esperienza teatrale e trasferito qui sulle corde dello strumento ad arco trattato con nobiltà espositiva e raffinata espressività.

Questo articolo ha un commento

I commenti sono chiusi.