E’ stato presentato ieri pomeriggio nello splendido contesto di Palazzo della Meridiana, il libro Uccidete Calaf – Articoli, scritti e testi teatrali sulla musica (1972-2022) edito da Serel International, Stefano Termanini Editore. Ne è autore Roberto Iovino. All’incontro, introdotto dai saluti del padrone di casa, Davide Viziano e dell’assessore Mascia in rappresentanza del Comune e coordinato da Giulia Cassini, hanno partecipato, con l’autore e l’editore, il giornalista Paolo Lingua (autore della prefazione al libro) e la disegnatrice Sara Casciaro , iodeatrice della copertina. Ha aperto e chiuso la manifestazione l’Ottetto dell’Orchestra Giovanile Paganini (violino principale Vittorio Marchese) che ha proposto il primo e l’ultimo tempo dello splendido Ottetto op. 20 di Mendelssohn.
A Roberto Iovino abbiamo chiesto di parlarci della sua pubblicazione.

Com’è nata l’idea di questo libro?
«Quest’anno festeggio 50 anni nella critica. Così mi è piaciuta l’idea di riflettere su questo mezzo secolo di lavoro, in particolare sugli incontri che ho avuto con importanti personalità oggi scomparse, come Stockhausen o Bussotti, per ricordarle e per pubblicare riflessioni e articoli ragionando sulla situazione attuale. Ho voluto strutturare il libro in diverse sezioni, indipendenti fra loro, per orientare il lettore che può anche scegliere quali approfondire e leggere per prima. Dopo una breve introduzione del mio collega e grande amico Paolo Lingua, abbiamo così: Le interviste, Ritratti e approfondimenti, Incontri impossibili, Testi per il teatro e, infine, Racconti e riflessioni critiche».
Fra le interviste quali ricorda con maggior interesse?
«Sicuramente quella con Stockhausen è stata molto interessante, soprattutto dal punto di vista professionale. Sul piano umano ricordo con piacere le diverse conversazioni con Rolando Panerai e con Milva, artista dalla professionalità straordinaria. E, ancora, Gianandrea Gavazzeni e Sanguineti con il quale ho avuto l’onore di scrivere un libro. Ognuna di queste mi ha dato qualcosa».
E invece che cosa ci dice degli incontri impossibili?
Il capitolo degli incontri impossibili nasce da due fattori. Come prima cosa penso che il sogno di ogni critico sia proprio quello di poter intervistare un grande musicista della storia. La seconda è che in passato mi sono occupato di musica e cucina e in quell’occasione avevo immaginato una serie di interviste con musicisti a tavola. Ho così unito insieme le due idee e in questo libro ho sviluppato tre di quegli incontri: con Beethoven, con Paganini e con Mascagni. Ciò che vorrei sottolineare di queste articoli è che nascono dalla fantasia e hanno, perciò, domande inventate, ma le risposte si attengono in modo fedele alla realtà, basandosi su fatti realmente accaduti e testimonianze del tempo. Infine vi è Una strana riunione fra musicisti, in cui ho immaginato di intrufolarmi in una riunione-congresso con tutti i musicisti della storia, da Guido D’Arezzo a Wagner. Mi fa da guida Simone Molinaro di Genova, ma non appena inizia il congresso vero e proprio vengo cacciato via».
L’ultima parte, invece, propone materiale quasi tutto nuovo.
«Esatto. C’è Le 405 corde del contrabbasso, dove ho inserito le gaff degli studenti ascoltate in questi anni di insegnamento, e che è il rifacimento di un mio precedente testo inserito in Musica & humour, scritto a quattro mani con Francesca Oranges….»

Poi c’è Genova 1972-2022, l’alfabeto della memoria
Ho voluto scrivere lettera per lettera un ricordo che mi suggeriva la mia memoria. Partendo dalla A, Alceste, per passare alla V, dove racconto la vita musicale degli anni Ottanta, alla U, di Ufficio stampa, alla S di Sovrintendenti. In questo capitolo ho voluto riservare uno spazio al mio grande amico, Marco Sciaccaluga, un uomo di grande cultura e di teatro. Per lui ho scelto la lettera O di ostinato, dal momento che gli piaceva definirsi un “minatore ostinato”.
Ci sono poi Il mestiere del critico e Uccidete Calaf, che chiudono il libro.
«Il primo è una riflessione, in cui attraverso la mia esperienza e la storia analizzo questo mestiere sotto le svariate sfaccettature, mentre Uccidete Calaf è una riflessione sul politically correct che trae spunto dall’episodio di Riccardo Muti con la Chicago Symphony avvenuto la scorsa estate, in cui il grande direttore italiano si è rifiutato di modificare il termine “negro” ne Il ballo in maschera di Verdi. Premetto che il personaggio di Calaf mi è sempre risultato antipatico. Come sappiamo Puccini ha lasciato incompiuta la sua Turandot, a causa della sua morte improvvisa a Brixelles, ma non solo; da tempo meditava il finale che evidentemente non lo persuadeva: il mutamento totale della Regina di ghiaccio cui basta un bacio dello spasimante per sciogliersi all’amore e dimenticare i tanti delitti commessi, era accettabile in una fiaba (Gozzi e poi la versione musicale di Busoni), meno in una grande commedia umana come quella di Puccini. Non a caso quando una ventina d’anni fa Berio ha scritto un nuovo finale, ha pensato di inserire dopo il bacio una sorta di breve interludio orchestrale in cui ha creato una sorta di “intervallo psicologico” che giustificasse la decisione di Turandot di abbandonarsi fra le braccia di Calaf. E, allora tornando al mio ragionamento, mi sono permesso di consigliare un nuovo finale: considerato che Calaf è insensibile e crudele più ancora di Turandot, lascia andare per il mondo da solo il padre cieco, non muove un dito per salvare Liù che si uccide per lui, perché avere pietà di un uomo del genere? Dunque, manteniamo la crudeltà onesta di Turandot, uccidete Calaf e avanti un altro.
In questo lavoro di riflessione, cosa pensa riguardo alla situazione attuale, in particolare a quella genovese anche in una prospettiva futura?
In questi 50 anni sono cambiate molte cose. Nella seconda intervista inserita c’è un dibattito di tre critici “storici” genovesi (Rietmann, Tartoni e Tempo) in cui, era il 1977, si denunciava una situazione molto precaria della cultura genovese. Vorrei a questo proposito soffermarmi un momento proprio sulla citata lettera V dell’Alfabeto della memoria. E’ indubbio che Genova abbiamo cambiato il suo volto e la sua “vocazione” culturale a partire dagli anni Novanta, contrassegnati dalla costruzione del Carlo Felice, del Teatro della Corte, oggi Ivo Chiesa e dal rilancio di Palazzo Ducale. Questo però non deve farci sottovalutare gli anni precedenti che per certi aspetti sono stati anche più vivaci culturalmente. Fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta si sono avute iniziative di grande vitalità animate da singole personalità che hanno trovato però un ambiente pronto a recepirle. Penso ai Cameristi diretti da Nevio Zanardi che si inventò i concerti domenicali al San Filippo, ma anche a Antonio Plotino con la sua Orchestra da Camera di Genova; e poi a Luigi Porro con il Coro Ianuensis e, ancora, a Leopoldo Gamberini con i Madrigalisti di Genova. Iniziative che moltiplicavano la proposta musicale e soprattutto offrivano a giovani diplomati l’occasione per maturare esperienze sia in termini solistici che in campo cameristico. Oggi di quel fervore non è rimasto quasi più nulla. Attualmente segnalo Matteo Manzitti che sta lavorando bene con il Festival Le strade del suono, ma è un caso isolato. Un tempo il teatro era più a misura d’uomo, mentre ora è un’azienda. Una volta c’era più fantasia. Ricordo L’Aida di Verdi rappresentata al teatro Margherita: fu un capolavoro d’ingegno con la Marcia effettuata da pochi mimi che uscivano e rientravano sul palcoscenico, sembrando un grande esercito in sfilata.