Fra le opere che Verdi compose dopo Traviata (1853) e prima di Aida (1871), nel periodo, dunque, coincidente con la sua straordinaria “terza fase” creativa, Un ballo in maschera, proposto ieri sera con successo al Carlo Felice, è certamente il titolo più popolare.
Diverse le ragioni. Innanzitutto, la generosità con cui Verdi ha arricchito la partitura di pagine melodicamente coinvolgenti: il tenore Riccardo ha tre pezzi forti (“La rivedrò nell’estasi”, “Di’ tu se fedele il flutto” e “Ma se m’è forza perderti”) oltre ai numerosi concertati; del soprano Amelia vale la pena segnalare, oltre all’intensa pagina iniziale del secondo Atto, l’aria del terzo, “Morrò ma prima in grazia”, mentre al baritono Renato è affidata l’aria “Eri tu che macchiavi quell’anima” di forte tensione emotiva. In secondo luogo, Verdi attua qui, più che altrove la mescolanza di “toni” diversificati (qualcosa del genere avrebbe poi fatto anche nella successiva Forza del destino). L’opera è tragica, si respira odore di morte sin dall’inizio, ma qua e là, si aprono parentesi di leggerezza e ironia: si pensi al personaggio di Oscar, ma soprattutto al coro dei congiurati che si fanno scherno del povero Renato allorchè si scopre che la donna velata e misteriosa, presunta amante di Riccardo è proprio la moglie del fidato amico del Conte. Infine, la maga Ulrica riporta Verdi, dopo le indimenticabili streghe shakespeariane del Macbeth, ad esplorare le atmosfere del soprannaturale, del misterioso.
Questa varietà di componenti, di toni alti e bassi, di colori diversificati costituisce il fascino della partitura verdiana, ma anche la sua difficoltà interpretativa, perché il tutto si basa su un perfetto equilibrio fra i diversi livelli narrativi.
Donato Renzetti, direttore emerito del Carlo Felice, è artista di indubbia intelligenza interpretativa e di solido mestiere. La sua lettura, dunque, è risultata efficace nel cogliere il respiro delle grandi arie popolari, ma anche attenta a dosare le dinamiche, a cogliere gli accenti drammatici e cupi tanto della tragedia passionale, quanto dei moti dei congiurati.

L’allestimento è una produzione della Fondazione Teatri di Piacenza, del Teatro di Ravenna e del Comunale di Ferrara. Le scene portano la firma di Carlo Centolavigna che ha creato un’ambientazione assai efficace con alcune immagini interessanti (l’antro di Ulrica, il salone delle feste nell’ultimo atto). Su questi spazi si è mossa la regia di un veterano dei palcoscenici quale il baritono Leo Nucci che ha saputo guidare l’azione con attenzione alle esigenze vocali e alle soluzioni drammaturgiche.
Una lettura, dunque, ben combinata fra componente musicale e componente visiva con un’unica zona d’ombra, la grande scena di Ulrica dove è venuto in parte a mancare, a nostro parere, quel senso di cupo mistero, di profonda tensione, che è elemento centrale nella presenza di Ulrica.
Cast di buon livello, soprattutto nella triade dei protagonisti.
Il Riccardo di Francesco Meli è ricco di pathos, ma anche di eleganza: basta ricordare il morbido fraseggio del duetto con Amelia (“Non sai tu”). Carmen Giannattasio ha restituito una Amelia vocalemente potente con alcuni momenti di indubbia forza espressiva: è il caso della scena con Renato (“Morrò, ma prima in grazia”). Molto bene, infine, Roberto De Candia nel ruolo di Renato: la celebre pagina “Eri tu che macchiavi quell’anima” ha giustamente meritato applausi calorosi.
Maria Ermolaeva, componente del secondo cast, è stata chiamata all’ultimo momento a sostituire la prevista Agostina Smimmero, indisposta, nel ruolo di Ulrica: ha cantato con intensità, meritando gli applausi ricevuti, anche se il personaggio forse avrebbe avuto bisogno di una maggiore maturazione. Da citare infine Anna Maria Sarra (Oscar), Marco Camastra (Silvano), John Paul Huckle (Samuel), Romano Dal Zovo (Tom) e Giuliano Petouchoff (Un giudice). Bene coro e orchestra.
Applausi calorosi a scena aperta e prolungati a fine spettacolo da parte di una platea particolarmente affollata.
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