Il dott. Ivano Fossati e la musica che gira intorno

“La musica è un rullo trasportatore che non si ferma mai”.

Così Ivano Fossati descrive l’industria discografica ed il suo fluire ininterrotto durante la lectio magistralistenuta lunedì 27 marzo in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo, dal titolo “Ispirazione, pensiero e sintesi nella musica discografica”.

Un riconoscimento importante, che premia un artista che nella sua lunga carriera ha saputo attraversare i decenni con garbo e poesia, regalando al pubblico brani indimenticabili, immortali, e sapendo parlare anche ai giovani “millennials”, fra le aule universitarie in qualità di docente.

L’industria discografica è cambiata dai tempi degli esordi coi Delirium, oggi il mondo va veloce e la musica ne è specchio. Ma Fossati non resta ancorato al passato e si dice aperto alle novità, senza pregiudizi, certo che, alla fine, l’ispirazione vincerà sempre.

Una lectio emozionante e sentita, che ci racconta di come la musica “leggera” sia strettamente legata a quella “colta”, e non ne sia antagonista. Fossati si dichiara innamorato della musica, tutta, senza distinzioni, individuando il principio fondamentale dell’atto creativo per i “narratori da tre minuti”: dire poco e lasciare molto all’immaginazione.

Si aspettava questa onorificenza? Come mai secondo lei proprio in questo momento?

No, certo non me lo aspettavo. Non penso mai al lavoro che ho fatto e a dire il vero nemmeno mi chiedo troppo cosa ne pensino le persone. Non avrebbe senso. A un certo punto quello che è fatto è fatto. Ma si è sempre stupiti quando gli altri ti fanno sapere che nel tuo lungo lavoro c’è qualcosa di apprezzabile. Una laurea honoris causa si può conferire soltanto, ahimè, a percorso ben inoltrato. Un eufemismo per non dire a una certa età. Così, per non sbagliare.

Lei ha tenuto diverse lezioni agli studenti universitari. Qual è il suo rapporto con l’Università?

Mi sono divertito e arricchito umanamente a insegnare, con i ragazzi è sempre così. Ho interrotto solo perché avevo da scrivere un album di canzoni (Mina Fossati) ma riprenderei volentieri.

 Negli ultimi 20 anni le discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo sono entrate a pieno titolo nei percorsi universitari e in parallelo i Conservatori sono stati equiparati alle Università. Pensa che il conferimento di questa Laurea honoris causa sia parte di un processo di “elevazione” della musica popolare, in particolare della musica cantautorale?

Molto è cambiato. La musica in tutte le sue forme, canzone compresa, oggi è a pieno titolo parte della nostra cultura generale. Un tempo quelli come me li seppellivano fuori dalle mura cittadine insieme agli attori; oggi ci aprono le porte e ci tributano onori, ma il cammino è stato lungo. Ancora negli anni ‘60 i commentatori radiofonici dicevano che i “cantanti farebbero meglio a cantare” intendendo che pensare era compito di altri. Le frontiere fra i generi musicali sono crollate: musica “alta” e musica popolare oggi si riconoscono e si fondono. E’ un processo molto positivo iniziato intorno agli anni ‘90.

Si considera maggiormente un autore di testi o un compositore di musica?

Ho dovuto essere le due cose insieme, il mestiere di un autore di canzoni lo prevede e non lascia scampo. Ma fra i miei album ce n’è uno che si chiama “Not one word”. Qualcosa dovrà pur significare.

 Un album come Discanto oggi avrebbe successo?

Temo di no. Discanto non so quanto si presti a essere ascoltato da un cellulare con la pubblicità in mezzo. Pochi lo apprezzerebbero, magari decisamente, ma molti lo ignorerebbero del tutto. Sono cambiate le modalità espressive nel profondo. Non significa che la gente, quella più giovane in particolare, sia meno sensibile o meno ricettiva, è che rivolge altrove la propria attenzione; in parole semplici vive il proprio tempo, ne accetta o ne subisce le modalità.

 Guardando indietro, quale pensa sia stato il periodo più significativo della sua carriera?

Gli anni ‘80 e ‘90. C’era in quel periodo una sintonia perfetta fra chi faceva la musica e chi la riceveva. Si trattava di partecipazione matura, attenzione collettiva ma senza l’esasperazione manichea degli anni ‘70. Si poteva arrivare a un notevole successo e poi non si doveva sbagliare. Il pubblico ti ascoltava, ti seguiva per davvero ed era un pubblico critico, pensante, che reagiva.

Jesahel ha compiuto 50 anni. Come la spiegherebbe oggi alle nuove generazioni?

Insieme ai Delirium cercavo di non somigliare a niente o quasi che fosse già in circolazione. Eravamo ragazzi perciò tutto era istintivo, niente di preordinato. Andare controcorrente spesso paga ma quella volta fu anche troppo. Direi ai nuovi artisti-autori di stare alla larga dal successo immediato e sovranazionale che ti può arrivare improvviso a vent’anni, quando sei impreparato a tutto. Non desiderarlo nemmeno. Perché poi è difficile riprendersi da una centrifuga simile, bisogna ricominciare da capo e se ti va bene ci vogliono anni. Il successo, se deve venire, va conquistato poco a poco. Allora si capisce cos’è, e forse ci si può fidare.

Quali altri cantautori meriterebbero, o avrebbero meritato, una laurea ad honorem?

Una laurea honoris causa si può dare anche alla memoria; quindi proporrei Giorgio Gaber. E poi spero che in America si siano ricordati di Randy Newman.