Death Café, la morte non è tabù alla Claque con Marina Minetti

Metti un bar confortevole a disposizione, qualche seduta avvolgente di velluto, luci calde, un po’ di atmosfera con musica chill out, “food & beverage” di tendenza e il gioco è fatto: si può parlare di tutto. Non di pettegolezzi o di massimi sistemi, ma di vita vera, vissuta, compresi soldi, mestruazioni, diversamente abili, degli ultimi momenti, di quelle parole pesanti mormorate in fil di voce in un letto di ospedale, oltre che della morte. Parola tra l’altro che non trova fortuna nemmeno nei necrologi dove si usano più apprezzabili formule comunicative quali “scomparso”, “mancato”…  Anche nella lingua parlata il verbo morire è fuori moda: meglio trovare un giro di parole, mettere un bel velo su uno stato da cui nessuno fa ritorno. 

Parte da qui e più nello specifico da quei Death Cafè che già esistono in altri Paesi il monologo dirompente, in prima nazionale, di Marina Minetti portato con successo alla Claque di Genova nella serata di giovedì 10 ottobre davanti ad una sala piena zeppa. Un dialogo a getto continuo che ha visto una vivace interazione attiva del pubblico, in cui si legge anche la maestria di due collaborazioni di firma, quelle di Emanuele Conte e Luigi Ferrando, con cui si va decisamente sul sicuro.

La traccia è familiare: una conduttrice radiofonica fa di uno dei massimi tabù il suo punto di forza con podcast e trasmissioni. E se ci pensate l’unico aspetto della vita che tendiamo a negare tutti, ma proprio tutti, è proprio la morte. Portate i vostri bambini ai funerale? Ne parlate al di fuori delle situazioni contingenti? Avete previsto il vostro testamento biologico, le volontà riguardo l’accanimento terapeutico o le modalità di sepoltura? Ne parlereste ad un vostro primo appuntamento? Vale davvero la pena ribadirlo: di fatto questo concetto è ripreso più volte nello spettacolo come il ritornello di una composizione. Forse pensiamo, come Epicuro, che “Se ci siamo noi non c’è la morte e che se c’è la morte allora noi non esistiamo: siamo destinati a non incontrarci mai”. Eppure l’antropologia culturale ci insegna che la morte, nella notte dei tempi, era legata a riti, cerimonie, momenti di condivisione, con cibo e bevande, essendo pertanto parte integrante della comunità.

Proprio da questa considerazione, se non da un ritorno al passato, è nata l’intuizione dei Café Mortels in cui parlare di morte ad opera dell’esperienza sociologica di Bernard Crettaz nei primi anni Duemila. Portarlo a teatro come forma di rappresentazione e condivisione è un passo ulteriore decisamente coraggioso e apprezzabile che trasforma la platea in un gruppo di ascolto su fragilità e trapassi. Ascoltare un monologo sulla morte infatti è terapeutico, ad ognuno risveglia momenti diversi: chi si ricorda il funerale del papà, chi il primo spavento per un “tumoretto” che magari di ha dato una spinta a cambiare lavoro o addirittura stile di vita.

Poi c’è un filone patologico su cui scoppia la facile ironia ed è quello che lega sesso e morte, comprendendo necrofori regolari, esclusivi, ossessivi o intraprendenti oppure il mondo del web che propina addirittura tutorial su come truccarsi al funerali. Eppure, diciamolo, per setacciare il luogo migliore in cui essere sepolti (lasciando stare il come perché sarebbe tutta un’altra storia) non occorre il web, ” non serve TripAdvisor”. E’ un viaggio che non ha stelline di valutazione.