Per il secondo anno consecutivo, il Carlo Felice inaugura la propria stagione lirica con Benjamin Britten. Dopo A Midsummer Night’s Dream ecco dunque A turn of screw, Un giro di vite, l’opera che per prima fece conoscere ai genovesi il genio del compositore inglese. E’ infatti fra le opere di Britten l’unica che vanta un doppio allestimento. Approdò qui (Teatro Margherita) per la prima volta nel 1978 secondo titolo di una stagione aperta da Porgy and Bess.
Torna ora in edizione originale e in un progetto teatrale assai più ambizioso. Come è noto, infatti, lo spettacolo si terrà al teatro Ivo Chiesa e comprenderà non solo l’opera di Britten, ma anche la rappresentazione del testo originario di Henry James nell’adattamento teatrale firmato da Carlo Sciaccaluga, prodotto dal Teatro Nazionale. Entrambi gli spettacoli avranno porteranno la firma del regista Davide Livermore, mentre l’Orchestra del Carlo Felice sarà diretta da Riccardo Minasi.
Un’operazione stimolante anche perché Un giro di vite è un testo di grande fascino, ma soprattutto è un testo “aperto” che lascia ampio spazio alla interpretazione non solo degli esecutori, ma anche del pubblico.
Henry James e il Giro
Scrittore e critico letterario, Henry James è nato a New York nel 1843 ed è morto a Londra nel 1916. La sua era una famiglia di intellettuali. Il padre Henry senior era teologo e filosofo, il fratello William filosofo e psicologo, la sorella Alice, scrittrice. Affascinato sin da giovane dalla letteratura europea, nel 1864 Henry James pubblicò il suo primo racconto breve A Tragedy of Error e avviò presto un’attività di scrittore e di giornalista collaborando con varie testate.
Il giro di vite, il suo capolavoro, risale al 1898. Da cosa nasce l’ispirazione per questo racconto? Sono state formulate varie ipotesi: a parte possibili ricordi infantili dell’autore (legati anche alla sorella Alice, sofferente di crisi depressive), soprattutto due storie lette o a lui narrate negli anni precedenti.
Sul giornale «Frank Leslie’s New York Journal» James aveva letto anni prima un racconto intitolato Temptation, dove si trattava di un’eredità, di un villain chiamato Peter Quin [sic], con un manigoldo al suo servizio di nome Miles, e di una coppia di fratellini di cui uno muore alla fine per le crudeltà subite in famiglia.
E nel 1895 James aveva raccolto la testimonianza dell’arcivescovo di Canterbury Edward White Benson riportata nel suo diario in data 12 gennaio: «assai vaghi, imprecisi e sfocati sono i dettagli di quanto mi ha riferito (molto approssimativamente) l’arcivescovo di Canterbury, appresi da una donna di pessimi costumi: è la storia di bambini (imprecisato il numero e l’età) lasciati alle cure dei servi in un’antica tenuta, a quanto pare dopo la morte dei genitori. I servi, malvagi e viziosi, corruppero e depravarono i bambini, crudeli e disonesti oltre il dovuto. I servi muoiono (non si sa come) e le loro apparizioni, le loro immagini tornano a infestare la casa e i bambini, a cui sembrano rivolgersi, che chiamano e attirano in luoghi pericolosi – il fosso profondo di uno steccato abbattuto ecc. – perché i piccoli possano farsi male, smarrirsi, e rimanere in loro potere….».
In queste righe è contenuto l’intreccio del romanzo. Sei i personaggi, oltre a un tutore che volente o nolente costituisce il collante fra tutti: ci sono due donne, la vecchia governante Grose, l’istitutrice che, unica, non ha nome; ci sono i due bambini Miles e Flora, orfani e relegati dallo zio-tutore in una imponente casa di campagna; e ci sono le due “presenze” infernali, il vecchio servitore Quint e la precedente istitutrice Jessel, entrambi morti ma incombenti. Quanto incombenti?
Questo è uno dei primi punti lasciati in sospeso. James, da abile scrittore di noir e di storie misteriose, non ci dice molto su di loro e soprattutto non ci dice chiaramente se le loro apparizioni sono reali o se sono addirittura solo nella testa della Istitutrice.
James lascia il lettore senza risposte ad alcune domande importanti. In particolare, quali sono i veri rapporti fra Quint e Miles?
E’ il caso di ricordare che la critica ha discusso sulla probabile omosessualità di James, un tratto che lo accomuna a Britten. In questa ottica, il rapporto Quint-Miles assume un contorno assai più fosco e spiega la inquietudine della Istitutrice, ma anche il comportamento di Miles che all’interno del sestetto è il personaggio più equivoco, quello intorno al quale ruotano gli interrogativi più scabrosi e si incentrano le paure della Istitutrice.
In James la volontà è quella di non dire, di non sciogliere i nodi. Ed è significativo che l’Istitutrice sia l’unico personaggio che non ha nome: in realtà è il lettore perché cerca di dare risposte così come cerca di darle chi affronta il romanzo di James.

Dal romanzo alla scena in prosa
Il Teatro Nazionale metterà in scena il testo di Henry James nella traduzione e nell’adattamento teatrale firmato da Carlo Sciaccaluga. Alcune osservazioni prima di coinvolgere direttamente Sciaccaluga. Nel suo lavoro estremamente interessante e originale, mi pare che venga meno la centralità della Istitutrice. Non è più lei l’unica narratrice. Ci sono episodi che non la coinvolgono direttamente e che mostrano l’intenzione del revisore di operare una sorta di sintesi fra James e Britten: in questa ottica si inserisce il dialogo fra Quint e Jessel nel secondo atto, assente in James e presente in Britten, in cui echeggia una frase che ritroveremo appunto nell’opera: la cerimonia dell’innocenza è annegata, un verso tratto da Il secondo Avvento di William Butler Yeats. Per Sciaccaluga il tema centrale è la celebrazione del male. E questo lo porta a inserimenti anche molto stimolanti, ad esempio da Shakespeare e dal suo Amleto, così come si diverte ad affidare ai bambini citazioni musicali da un Lied di Goethe/Schubert (Erlkoenig sul tema della pedofilia) o da un mottetto di Palestrina.
L’opera di Britten
Britten come sappiamo è stato il primo musicista britannico a conquistarsi un posto stabile nel repertorio teatrale, dai tempi oramai remoti di Purcell. Lo ha fatto pur percorrendo un itinerario personale al di fuori delle correnti alla moda. Soffermiamoci dunque su due aspetti: i soggetti, e le soluzioni drammaturgico-musicali.
Il segreto principale del suo successo, veniamo al primo punto, sta nell’aver scelto soggetti atti ad esaltare la sua natura, a cominciare da Peter Grimes, che lo lanciò nel firmamento mondiale degli operisti nel 1945. Dalle pieghe di questa storia, che vede Peter, marinaio rozzo e violento, soccombere, vittima della cattiva sorte, alle maldicenze di una comunità perbenista, emerge il tema che sottintende l’intera produzione di Britten: il conflitto tra privato e pubblico, tra il riconoscimento delle ragioni del proprio istinto e le convenzioni sociali cui l’eroe deve sottostare. Ed ecco allora animarsi tutta una galleria di personaggi che celebrano l’impossibilità di essere ‘normali’, da Billy Budd (1951, rivisto nel 1960), a Death in Venice (1973).
Per quanto riguarda il secondo punto, la scelta drammaturgica, in un’epoca nella quale il teatro si apriva a soluzioni differenziate nelle quali il “racconto”, la storia, il testo sarebbero diventati un pretesto per una performance di carattere assolutamente rivoluzionario rispetto al teatro di narrazione precedente, Britten mantiene un filo diretto con la tradizione.
Tutto in Britten arriva dalla storia: i suoi punti di riferimento sono tanti, da Purcell a Debussy, da Ravel a Berg senza dimenticare Verdi e Puccini. Non è, la sua, un’operazione di ironica citazione in stile stravinskiano: pensiamo alla Carriera di un libertino, grottesca rivisitazione del teatro settecentesco. E’, invece, un atteggiamento di recupero linguistico realizzato filtrando il passato alla luce di una modernità che trova la sua ragion d’essere proprio nei temi affrontati, come si è detto.

Il giro di vite
«Ho finito di leggere The Turn of the Screw di James, un capolavoro incredibile». Così il 7 gennaio 1933 Benjamin Britten commentava sul suo diario l’incontro con il romanzo di James. Capita a molti musicisti che una lettura giovanile covi nella mente a lungo per poi emergere molti anni dopo come molla ispiratrice per una nuova avventura creativa. Beethoven, ad esempio si innamorò del testo di Schiller (l’Inno alla Gioia) in giovane età e lo inserì nella Nona Sinfonia al termine della sua carriera, Puccini per anni inseguì la Tosca di Sardou. Da parte sua, Britten fece trascorrere circa vent’anni prima di ricordarsi del suo innamoramento giovanile. D’altra parte la complessità del romanzo richiedeva una maturità che il giovane Benjamin nel 1933, ancora lontano dai successi operistici non poteva possedere.
Al Giro, dunque, Britten arrivò dopo un trionfo e dopo un fiasco, in rapida successione. Nel 1951 Britten aveva colto un entusiasmante successo mettendo in scena alla Royal Opera House, Billy Budd, opera per sole voci maschili ispirata a Melville. E nel 1953 per l’incoronazione di Elisabetta II Britten compose Gloriana, lavoro celebrativo ispirato a Elisabetta I: un fiasco stando alle reazioni della critica e del pubblico.
In soccorso del compositore fortemente deluso dall’accoglienza della sua ultima fatica, arrivò la Biennale di Venezia che in quegli anni svolse un ruolo davvero di primo piano nella cultura musicale internazionale. Nel 1951 aveva ospitato infatti il debutto della Carriera di un libertino di Stravinskij, nel 1955 avrebbe accolto la prima esecuzione in forma di concerto dell’Angelo di fuoco di Prokof’ev. E per l’edizione 1954 commissionò a Britten un nuovo lavoro.
L’ormai maturo Britten scelse Giro di vite e si affidò per la stesura del libretto all’amica Myfanwy Piper, insegnante, moglie del pittore e scenografo John Piper.
Il passaggio dal romanzo alla scena teatrale impone naturalmente alcune modifiche.
La trasposizione librettistica tende infatti a ridurre i margini d’ambiguità interpretativa che aveva lasciato James. Nell’opera gli spiriti, che nel romanzo si limitano a una presenza muta ed evanescente, sono presenti concretamente interloquendo con i bambini e tra di loro. In questo modo il compositore inglese mette in primo piano il problema della corruzione esercitata dagli adulti sui bambini, a cui i piccoli sono più esposti perché più indifesi.
Britten punta dunque a mostrarceli e se a lungo si è indotti a credere che a vedere Quint e Jessel sia solo l’Istitutrice, nella quarta scena del secondo atto Quint si rivolge direttamente a Miles, l’Istitutrice non lo vede ma percepisce il dialogo fra i due. Britten insomma, gioca a carte scoperte con Miles e ci rimane solo il dubbio se sin dall’inizio il bambino sia in relazione o meno con il fantasma.
L’originalità del lavoro di Britten, oltre alla scelta di un argomento certamente delicato sta in un atteggiamento compositivo che privilegia la “ricerca”, dall’organico insolito alla costruzione formale, dall’uso del serialismo al lirismocastigato.
Nel cast prevale nettamente la voce femminile: tre donne e due voci bianche contro il solo tenore cui è affidata la parte di Quint, ma anche, in genere, del narratore nel Prologo. D’altra parte anche il tenore qui si spoglia di ogni velleità eroica e possente e tende a una scrittura sensuale, suadente: Quint cerca di ammaliare più che di terrorizzare con la sua voce.
La scrittura vocale privilegia il recitativo, una sorta di recitarcantando, pienamente rispettoso della parola in un rapporto cioè sillaba suono. Solo di tanto in tanto il recitativo si scioglie in un canto più fluente. E accade soprattutto quando è Quint a cercare di sedurre Miles, o è la Istitutrice che si abbandona alle sue paure. Curioso notare che Quint e la Istitutrice, antagonisti dall’inizio alla fine del dramma, in taluni casi cantano in maniera simile come se si volessero affrontare sullo stesso terreno.
Per quanto concerne ancora i bambini abbiamo ricordato che Sciaccaluga affida loro alcuni momenti cantati. E lo fa sulla scia di Britten che fa intonare a Miles e a Flora due motivetti “Tom Tom” e “Azzurro di lavanda”: due rime infantili che costituiscono un collegamento con la tradizione britannica e nello stesso tempo connotano la loro pur discutibile appartenenza alla innocenza fanciullesca.
Il complesso strumentale è cameristico, tredici esecutori per un numero di strumenti di poco superiore: quintetto d’archi, quartetto di legni con cambi consueti, un corno, arpa, pianoforte, celesta e nutrite percussioni. Straordinario orchestratore, Britten sfrutta le risorse timbriche del suo organico per cogliere le minime sfumature del racconto e della psicologia dei personaggi. Inoltre affida all’orchestra la definizione dell’architettura generale dell’opera: i quindici interludi strumentali richiamano alla memoria gli “interludi marini” che troviamo in Peter Grimes. Servono a fissare di volta in volta il clima, l’atmosfera delle scene che introducono e inoltre costituiscono altrettanti variazioni del tema che Britten propone all’inizio dell’opera e che genera il materiale strutturale dell’intera composizione.
Torneremo tra poco sul tema iniziale. Interessa qui sottolineare ancora il ruolo dello strumentale. Britten, va ricordato, è stato autore di molte colonne sonore. E il descrittivismo attraverso l’orchestra era pane per i suoi denti: così utilizza tutti gli effetti possibili dai tremoli alle ossessive percussioni dai voli della celesta alle campane. Il clima scuro e opprimente che anima l’intera opera è garantito dal martellante ricorso alle percussioni che come abbiamo visto sono particolarmente copiose. I due spettri sono in genere accompagnati dagli idiofoni: celesta e glockenspiel per Quint, le cui apparizioni sono “segnalate” da veloci disegni, appunto, della celesta e gong per Miss Jessel. Arpa e legni punteggiano di continuo gli interventi dei due bambini, laddove gli archi prendono principalmente in consegna l’istitutrice e Mrs. Grose.
Se dunque i personaggi trovano un loro “colore” non solo nella vocalità assegnata, ma anche nella timbrica strumentale che li sostiene, il compositore connota anche particolari scene attraverso le scelte timbriche.
L’opera si articola in due atti, ognuno composto da otto scene che propongono sedici momenti del romanzo di James. Ogni scena è preceduta da una Variazione solo strumentale (fa eccezione la Variazione 12 che prevede un intervento vocale di Quint) che rimanda ad una forma musicale (da una doppia fuga a un canone, da una sonata, a una passacaglia) o si struttura in una libera costruzione per introdurre rigorosamente nel clima della scena stessa.
E’ evidente il riferimento al Wozzeck di Berg che Britten amava particolarmente. Questi otto-più-otto quadri creano parallelismi narrativi fra lo stesso numero di scena dal primo al secondo atto: ad esempio la lezione di latino (Atto I scena 6) trova corrispondenza nella lezione di musica (Atto II scena 6), mentre l’apparizione di Quint alla Istitutrice (Atto I scena 4) trova corrispondenza nell’apparizione di Quint a Miles (Atto II, scena 4).
Nel Prologo, dopo una introduzione del solo pianoforte, quando alla tastiera iniziano ad aggiungersi altri strumenti, lo stesso pianoforte enuncia il tema base della composizione. E’ un tema di 12 note, una serie che copre il totale cromatico. L’insistenza di determinati intervalli, quarta ascendente e terza minore discendente può far pensare al giro di vite, al movimento che una vita subisce nella sua graduale torsione.
Va tuttavia chiarito subito che il ricorso a una serie non implica automaticamente l’adozione del metodo dodecafonico. Britten (del resto in buona compagnia con Berg) usa la serie in maniera del tutto libera come materiale compositivo da cui partire per un lavoro che tende a sfruttare una delle tecniche più antiche e care al compositore inglese: quella, appunto, della variazione.
In conclusione con The turn of the screw Britten nell’affrontare un tema certamente scabroso e tragico costruisce una partitura nella quale con una ammirevole perizia tecnica riesce a parlare con la tradizione e nello stesso tempo dimostrare la sua capacità di essere nella contemporaneità, al di fuori delle correnti alla moda, ma libero di muoversi secondo un itinerario stilistico totalmente personale e originale.