Leeuwenhoek, tra arte e scienza

Nel secolo di Galileo, fu un dilettante l’ideatore del primo microscopio semplice.

L’Olanda secentesca, ritratta mirabilmente dal grande Vermeer, fa da sfondo alle vicende curiose di uno degli inventori meno noti ma più significativi nella storia della tecnica

 “Cosa accadrebbe se le gentildonne che frequentano la mia casa scoprissero che esistono più animali viventi nel tartaro dei denti di un uomo che non uomini in un regno intero?” Così Antoine van Leeuwenhoek, in una lettera datata 12 settembre 1683 alla Royal Society of London. La missiva non è certo una fra le più scientifiche del nutritissimo epistolario dell’olandese, e tuttavia è quella che più simpaticamente ci avvicina alla personalità brillante ed eclettica di un uomo dotato di insaziabile curiosità, tenacia e intelligenza: l’uomo cui si devono la scoperta dei microorganismi e la messa a punto del primo microscopio semplice.Visse ben novantun anni – un’età allora raggiunta da pochissimi – almeno cinquanta dei quali dedicati alla grande passione per l’infinitamente piccolo. Sì, perché di passione essenzialmente si trattò, visto che la sua preparazione scientifica fu alquanto dilettantesca, da autodidatta. Nato a Delft il 24 ottobre 1632, figlio di commercianti (artigiano e venditore di cestini il padre e titolare di una fabbrica di birre la madre), fu avviato a vent’anni al mestiere di mercante tessile, che esercitò tutta la vita. Si sa inoltre che fu un eccellente assaggiatore di vini, che ricoprì cariche politiche nella città natale e che forse fu amico del grande pittore Johannes Vermeer. I due erano nati a pochi giorni di distanza nella stessa città, abitavano nello stesso quartiere ed anche il padre di Vermeer si occupava del commercio di stoffe. E’ dunque molto probabile che si frequentassero, anche se l’unica prova certa che abbiamo di una loro interazione è un documento che nomina Leeuwenhoek esecutore testamentario di Vermeer e curatore dell’eredità del pittore dopo la sua morte.

Ma veniamo all’invenzione di Leeuwenhoek. Come tutti i mercanti di tessuti, anche Antoine faceva uso di perle di vetro, ovvero piccole lenti quasi sferiche impiegate per l’esame dettagliato delle fibre. A lui solo però venne in mente di utilizzare quei minuscoli strumenti di lavoro per osservare qualcosa di diverso da sete e pannilana. Fu l’inizio di una serie infinita di ricerche che lo portarono a scoprire un mondo dentro il mondo: quello della vita impercettibile alla nuda vista. Fu un’avventura, una sfida, in un’epoca in cui, soltanto qualche decennio prima, l’umanità aveva cominciato –  grazie a Lippershey, Galielo, Kepler… – a guardare con occhi nuovi verso l’alto, verso la sfera celeste, verso l’universo infinitamente grande. In realtà scienziati “veri”, per esempio Hooke,  si erano cimentati prima di lui con prototipi di microscopi che però, proprio perché troppo complessi, non si erano rivelati così efficaci quanto il semplicissimo marchingegno architettato dal mercante.

L’apparecchio consisteva in un’unica lente di ingrandimento, quasi sferica, montata su due piccole piastre forate di ottone. Il materiale da osservare veniva sistemato sulla punta di uno spillo, all’altezza della lente; lo spillo era ancorato alla piastra superiore e regolato da due viti che permettevano di cambiare la distanza del campione dall’obiettivo. Per conseguire ingrandimenti maggiori, l’ingegnoso olandese realizzò lenti di dimensioni sempre più piccole, fino ad 1-2 millimetri di diametro, in grado di riprodurre un’immagine quasi trecento volte più grande dell’originale, ovvero circa un terzo di quel che si ottiene oggi con ben più sofisticati strumenti.

Armato della sua preziosissima creazione, con l’entusiasmo di un bambino di fronte ad un mondo fatato, Antoine si mise ad esplorare tutto ciò che gli capitava intorno: saliva, sangue, acqua degli stagni, fango, aceto, sperma, birra, semi, alghe… E di ogni scoperta riferiva con lunghe e dettagliate relazioni alla Società Reale, accademia inglese di luminari della scienza, di cui entrò a far parte come titolare a partire dal 1680. Non partecipò tuttavia ad alcuna riunione, preferendo Delft, le mura domestiche e il suo fido aggeggino magico alle chiacchiere pompose ed ufficiali dei colleghi blasonati.

Nel suo laboratorio ricevette ospiti curiosi di ogni genere e schiatta: la sua fama raggiunse persino Pietro il Grande di Russia, che fu interessato ad un suo esperimento sulla circolazione dei vasi capillari delle anguille (!!!).

E fra i visitatori del suo studio probabilmente ci fu anche Vermeer, che si interessava di ottica e di strumenti scientifici: due dei suoi dipinti,“Il Geografo” e “L’Astronomo”, mostrano dettagliatamente tutti i congegni utili agli studiosi della natura dell’epoca, resi con una precisione e un dettaglio che solo un estimatore esperto poteva conoscere. Numerosi storici dell’arte hanno addirittura ipotizzato che van Leeuwenhoek potrebbe aver posato per queste due opere.

Inoltre altri critici sostengono che le accurate descrizioni pittoriche di interni ed esterni di Vermeer potrebbero essere state  agevolate dall’uso di una piccola “camera ottica” che Leeuwenhoek stesso gli avrebbe costruito. Un ulteriore supporto a questa possibilità è la totale mancanza degli usuali metodi preparatori nei dipinti di Vermeer, cioè schizzi o disegni a matita o carboncino che si notano pressoché in ogni dipinto antico quando viene esaminato con indagini spettroscopiche.

Vermeer morì nel dicembre del 1675. Leeuwenhoek gli sopravvisse ancora ben 48 anni, continuando instancabilmente con le sue osservazioni fino agli ultimi giorni di vita. Dopo la sua morte, avvenuta il 30 agosto 1723, il pastore di Delft – con ampiezza di vedute assai rara per un religioso dell’epoca – scrisse alla Società Reale: “Antoine va Leeuwenhoek ha dimostrato che ogni cosa può essere studiata con il metodo sperimentale basato sui sensi; con grande perizia e determinazione scoprì molti segreti della natura, ora patrimonio di tutto il mondo scientifico e filosofico”.