Carlo Felice: splendido Filidei, perplessità per i “doppi” Pagliacci

La storia dell’opera nel Novecento è ricca di litigi fra direttori e registi sul primato nelle scelte interpretative di uno spettacolo. Forse il più famoso duello si registrò nel 1974 a Salisburgo dove in occasione di uno storico Flauto magico un furioso Karajan costrinse un altrettanto furioso Strehler a ritirarsi dopo scontri durissimi per una soluzione registica (un velo che scendendo delicatamente sul palcoscenico faceva un impercettibile rumore fastidioso per l’austero direttore tedesco) che oggi non creerebbe alcun problema.

Oggi, appunto, la situazione è cambiata e raramente accade che un direttore e un regista si contestino apertamente e che uno dei due abbandoni lo spettacolo. Mai, ad esempio, in passato un direttore avrebbe accettato di trovarsi il coro posizionato alle sue spalle, in platea. È quello che capita al Carlo Felice nella interessante e discutibile messa in scena di Pagliacci (un allestimento del teatro genovese in collaborazione con Rai Cultura) che venerdì sera ha aperto la stagione lirica insieme a Sull’essere angeli di Francesco Filidei.

Un momento della recita di Pagliacci

Pagliacci raddoppiati: la realtà aumentata

Il regista Cristian Taraborrelli ha voluto giocare con la tecnologia, inventando una realtà aumentata e quindi un doppio piano narrativo. Un grande croma key fa da sfondo, i cantanti si muovono in uno spazio pressochè vuoto, ma in uno schermo sovrastante li ritroviamo nello spazio ideato dal regista che poi indugia su primi piani e su particolari.

Premesso che la sperimentazione in teatro e in generale nell’arte è necessaria per trovare nel tempo soluzioni interpretative, per favorire una lettura in qualche modo al passo anche con gli strumenti espressivi che la nostra epoca offre, non sempre le sperimentazioni risultano efficaci al primo tentativo. Per quello che si è visto, occorrerà ancora affinare la tecnica e soprattutto metterla a supporto di idee registiche efficaci.

Da lodare ad esempio l’avvio della seconda parte: inizia lo spettacolo nello spettacolo (la soluzione di teatro nel teatro inventata da Leoncavallo e che tanto successo avrebbe avuto poi nel Novecento), e il pubblico vede proiettao un “dietro le quinte” con Canio scosso per il tradimento di Nedda. Ed è poi efficace la scena della uccisione di Nedda con lo “spazio teatrale” che si squarcia (le quinte si aprono): dalla finzione si passa alla realtà. Altre soluzioni non ci hanno convinto: a cosa serve la bicicletta nel prologo? Solo a imbarazzare Tonio che non sa come tenerla. Ha senso l’incendio che brucia il bosco virtuale a rendere la gelosia di Pagliaccio? Schoenberg introducendo il suo Pierrot lunaire raccomandava ai suoi interpreti di non voler aggiungere nulla a quello che lui aveva scritto, il rischio sarebbe stato di togliere invece di mettere. La musica spesso dice tutto e ogni aggiunta è nociva. Il turbamento di Pagliacci è tutto in quella pagina splendida e popolare che ha decretato il trionfo dell’opera di Leoncavallo. Il fuoco lasciamolo alla morte di Don Giovanni.

Serena Gamberoni in scena

Lo schermo, inoltre, è naturalmente sfasato rispetto alla percezione diretta del suono e quindi si vedono bocche che non cantano quel che si ascolta, il che sommato alla immagine reale sottostante dà un senso di disorientamento.

Inoltre, come già anticipato, i due cori (adulti e voci bianche) sono stati posizionati in platea alle spalle quindi del direttore e a loro volta, spalle al pubblico. Scelta certamente obbligata dai problemi anticovid perché, come abbiamo già scritto, nessun direttore potrebbe accettare diversamente una situazione del genere. I cori (e i loro direttori, rispettivamente Francesco Aliberti e Gino Tanasini) sono stati bravissimi, ma inevitabile è uno squilibrio nella compattezza sonora generale e, sul piano registico, se è vero che si accresce l’idea del coro come pubblico, è anche vero che se ne perde l’apporto drammatico sul palcoscenico alla morte di Nedda.

Una bella esecuzione musicale

Bene il cast: Fabio Sartori è stato un generoso e ispirato Canio, Serena Gamberoni ha delineato una Nedda convincente sul piano interpretativo e scenico, Sebastian Catana un Tonio vocalmente efficace  e capace di conferire al personaggio la giusta dose di subdola cattiveria. Completavano il cast Matteo Falcer e  Silvio Rosiello.

Andrej Yurkevich ha diretto assai bene scavando nella partitura di Leoncavallo e offrendone una lettura ben equilibrata fra la dimensione tragica e quella lirica.

Mario Caroli e Claudia Catarzi nel lavoro di Filidei

La suggestiva partitura di Filidei

L’orchestra l’ha assecondato assai bene assicurando anche una esecuzione attenta dell’altra partitura in programma. Sull’essere angeli nata anni fa per flauto e orchestra è stata riproposta qui in una nuova veste coreografata da Virgilio Sieni che si è ben inserito nella dimensione onirica e densa di tensione della partitura. La scrittura strumentale propone un melodiare quasi continuo del flauto solista (l’ottimo Mario Caroli) contrappuntato in orchestra da soluzioni sonore quanto mai varie (sibili, sussurri, grida, effetti particolari si alternano a brevi e improvvisi squarci lirici) in una architettura generale di suggestiva eleganza. La gestualità di Sieni, abile  a tradurre in movimento i singoli momenti sonori di Filidei ,ha trovato una eccellente interprete nella magnifica danzatrice Claudia Catarzi: un lungo e complesso assolo che il pubblico ha mostrato di apprezzare con un applauso finale convinto e meritato ad autore e interpreti.