“Gli interpreti sono all’eterna ricerca del filone aureo, alla eterna ricerca di una verità: la possono cercare in eterno perché non la troveranno mai. E’ il bello del nostro lavoro, ci porta a rimetterci in gioco ogni volta che si affronta un testo: c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Siamo dei minatori ostinati opposti agli “adepti del velame”, coloro che invece nascondono la realtà con false idee, attribuiscono al testo una sovrainterpretazione, una loro personale visione del mondo”. Lo sosteneva Marco Sciaccaluga, l’indimenticato regista, attore, condirettore del Teatro Stabile e direttore della Scuola di recitazione, scomparso il 10 marzo di un anno fa.
Il Teatro Nazionale per ricordare l’artista ha organizzato un ciclo di incontri. Dopo quello di ieri, dedicato a una riflessione a più voci sulla personalità di Sciaccaluga (foyer affollatissimo), questo pomeriggio sarà proposto il primo dei tre incontri dedicati alla proiezione di suoi lavori: il pubblico potrà vedere due video, Making of Il Gabbiano, un documentario di estremo interesse in cui si potrà seguire la messa in scena del Gabbiano di Cechov del 2017 dalle prime prove di lettura alla generale e La favola del principe Amleto realizzata da Sciaccaluga nel suo ultimo anno di attività (2019) con gli allievi neodiplomati della Scuola. Introdurrà i due filmati l’attore Roberto Alinghieri, uno fra gli interpreti di Cechov.
Mercoledì 16 (ore 15,30) la rassegna proseguirà con Morte di un commesso viaggiatore di Miller uno degli spettacoli in assoluto più belli di Marco Sciaccaluga (2005, Premio “Olimpico per il Teatro” per la migliore regia e per il miglior spettacolo) e una delle più grandi interpretazioni di Eros Pagni che interverrà con un contributo video. Introdurrà l’incontro Eugenio Buonaccorsi.
Infine, il 18 marzo (ore 15,30) un altro grande lavoro di Sciaccaluga, John Gabriel Borkman di Ibsen, del 2018 con la straordinaria interpretazione di Gabriele Lavia che invierà in video una sua testimonianza. A presentare lo spettacolo sarà l’attore e compositore Andrea Nicolini che ha collaborato per anni con Sciaccaluga per le musiche di scena.
Qui di seguito pubblichiamo parte del ricordo di Sciaccaluga proposto ieri.
Marco ci ha lasciato un anno fa e il vuoto che ha causato la sua scomparsa resta incolmabile. Ci manca l’amico, ci manca lo straordinario uomo di teatro e di cultura che sapeva sorprenderci con le sue illuminanti letture drammaturgiche e sapeva affascinarci con i suoi racconti, la sua dialettica vivace e sottile. Parlare di Marco al passato è per me tremendamente difficile perché Marco ha costituito una presenza pressoché fissa in tutta la mia vita.

Ci siamo conosciuti nel 1959 fra i banchi della prima elementare. Amicizia immediata e studio comune fino alla maturità al Liceo D’Oria. Sono stato dunque testimone diretto del suo graduale innamoramento per il teatro e della sua decisione di seguire la scuola di recitazione maturata nel secondo anno di liceo.
La fine della scuola ha certamente comportato una minor frequentazione, ma ci siamo sempre tenuti d’occhio l’un l’altro. In particolare non credo di aver perso alcuna sua prima perché il suo modo di fare teatro mi ha sempre affascinato.
Negli ultimi anni poi abbiamo ripreso a sentirci con maggiore frequenza e sono particolarmente contento di aver scritto con lui nell’ultimo decennio due libri, in particolare cito il secondo, una lunga intervista a lui sul suo teatro.
Contento non tanto per la qualità dei libri (non spetta a me un giudizio del genere) quanto perché la stesura dei due testi è stata una splendida occasione per tornare a conversare sui più vari argomenti, discutere, scambiarci opinioni come facevamo da giovani in interminabili serate a parlare di tutto e di niente.
Ecco, nella mia chiacchierata di oggi mi rifarò al libro-intervista dedicato al suo teatro per ripercorrerne la carriera. E debbo allora preliminarmente ricordare come è nato il libro.
Stabilita una serie di argomenti che avremmo voluto affrontare, ad ogni incontro, piazzavo un registratore fra noi e si cominciava a conversare. Trascrivevo poi le conversazioni e in fase successiva le rivedevamo per correggere e approfondire laddove questo era necessario.
Del libro, dunque, mi sono rimasti non solo gli appunti scritti, ma anche gli audio delle nostre chiacchierate e mi permetterò qui di proporre alcuni di questi interventi di Marco.
Marco lo sappiamo è stato in teatro un enfant prodige. Lui si è sempre dichiarato figlio di abbonati, il che era vero e deve alla passione per il teatro come per la lirica da parte della nonna e dei genitori il suo accostamento al teatro nelle sue diverse sfaccettature.
Ma debbo ricordare anche un’esperienza liceale che ci appassionò per mesi e che è indicativa della strada poi intrapresa da Marco. Nella sezione B che frequentavamo avevamo una giovane insegnante di filosofia Eugenia Perasso che per farci capire meglio il mondo della filosofia antica, ebbe l’idea di farci rappresentare in maniera molto rozza il Prometeo incatenato di Eschilo. Fu una bella esperienza (oggi è quasi normale portare il teatro nelle scuole, allora era un evento straordinario) che ci entusiasmò, tanto che l’anno successivo con una iniziativa interclasse si decise di mettere in scena, il Marat-Sade di Peter Weiss. Si era negli anni delle grandi contestazioni, il preside di allora era l’indimenticabile Italo Malco che diede l’assenso e mise a disposizione l’Aula Magna. Partecipammo una trentina di studenti. La regia fu affidata a Marco, coregista era Franco Cozzi, l’ex Procuratore Generale, fra i partecipanti c’erano Marco Giusti e Enrico Ghezzi futuri creatori di Blob. Si fecero molte prove in Aula Magna. Fu insomma una splendida avventura finita male perché alla lettura del copione, il preside chiese qualche taglio (con il senno di poi, richiesta assolutamente legittima) ma in quel momento ci sentivamo tutti duri, puri e intransigenti e al grido o così o niente, lo spettacolo saltò.
Rimase però la voglia di teatro se qualche mese dopo Marco si trovò appunto alla Scuola dello Stabile.
La nostra maturità risale all’estate del 1972. Marco bruciò le tappe perché trovò sulla sua strada tre maestri intelligenti che seppero intuirne le potenzialità enormi: Anna Laura Messeri la colonna portante della Scuola di Recitazione accanto a Massimo Mesciulam, anch’egli nostro compagno di liceo; Luigi Squarzina il regista stabile di allora che scelse Marco come aiuto e soprattutto Ivo Chiesa che puntò su Marco e su Carlo Repetti facendoli crescere in teatro e poi al momento del suo ritiro affidando loro la sua creatura.
Da Squarzina, Marco ha assimilato certamente l’approccio al testo da mettere in scena: un approccio profondo fatto di letture, studio attento dell’autore, conoscenza rigorosa anche del testo originale rapportato alla traduzione quando si trattava di un lavoro in lingua straniera.

La carriera di Marco, dopo alcune prove, diciamo “minori” ma che già ne avevano evidenziato le qualità (penso a Perdono reale di Arden, diretto nel 1973 a 20anni) iniziò con il botto nel 1975. Marco aveva 22 anni e si trovò a dirigere la prima nazionale di Equus di Shaeffer. Lo spettacolo ebbe una risonanza clamorosa sulla stampa, Sciaccaluga divenne l’enfant prodige della regia teatrale. Iniziava così una carriera durata quasi cinquant’anni e costellata di successi: oltre settanta le regie firmate per lo Stabile senza contare gli spettacoli cui ha partecipato come attore mettendosi al servizio di registi come Langhoof, Besson, Ronconi.
Marco ha spaziato in tutti i campi, dal teatro classico alla contemporaneità, soffermandosi su Shakespeare come sui grandi francesi, adorando i russi, in particolare come vedremo Cechov, amando sperimentare ma sempre con il rigore filologico di chi parte sempre dal testo, dalle parole, dalla drammaturgia per costruire la sua lettura insieme agli attori. Per Marco era doveroso, naturalmente, avere la preparazione necessaria per affrontare un testo, ma nello stesso tempo nutriva la curiosità di scoprire giorno per giorno qualcosa di nuovo. Gli piaceva, sosteneva, rispondere “non lo so” a qualche domanda degli attori per stimolarne la creatività.
Ma scorriamo rapidamente alcune immagini per ricordare momenti importanti della sua attività professionale.
1980 – La bocca del lupo – Il testo di Remigio Zena era stato adattato alle scene da Arnaldo Bagnasco, Lucia Bruni e Giuseppe D’Agata, nel numeroso cast c’era una grande Lina Volonghi.
1982 – Falstaff al Teatro Margherita: una delle poche sue esperienze nel campo della lirica, qui impegnato con un grande verdiano quale Giuseppe Taddei. Il primo impatto comunque con il teatro shakespeariano, sia pure mediato dalla personalità verdiana.

1996 – Moi di Labiche, regia di Besson, Marco attore con Eros Pagni. A questo proposito lo stesso Marco mi ha raccontato un divertente aneddoto:
Io facevo la parte di un medico cretino, vedovo inconsolabile che parlava con una vocina acuta in falsetto. Una delle mie caratterizzazioni più efficaci, avevo un bel successo. Avevo una parrucca incredibile che mi aveva fatto Valeria. Questo medico proprio perché è cretino diventa il deus ex machina della commedia. Perché non intende bene le indicazioni del protagonista, Pagni: salva il futuro della povera nipote che questo vecchio egoista tiene segregata e non vuole che si sposi con un giovane spasimante. Verso la fine della commedia il protagonista chiedeva al dottor Fourcinier (a me) di scrivere un falso certificato nel quale si diceva che la ragazza era malata: in questo modo avrebbe potuto allontanare il pretendente. Io avevo una battuta: “Ma è malata?”. E lui diceva: “Non si preoccupi, scriva ecc.”.
Una sera, ecco la visita degli dei, parte la mia domanda “Ma è malata”, Pagni rispose: “Dottore non si preoccupi ecc.” E io guardando Eros per fargli uno scherzo ribatto: “Ma allora non è malata?”. Boato: la sala ride, Pagni mi guarda, trattiene la risata e mi dà corda siamo andati avanti a improvvisare per circa due minuti giocando su questo punto, è malata o non è malata. La gente continuava a ridere e così abbiamo inventato un dialogo con parole elementari, naturalmente. Ho vissuto in prima persona la grandiosa esperienza dell’improvvisazione che ti trascende. Come se ci fosse qualcuno a suggerirti le battute. Anche nelle sere successive abbiamo mantenuto quelle battute inventate. Abbiamo inventato, per così dire, un repertorio.

1999 – Fedra di Racine con Mariangela Melato

1999 – Lo storpio di Inishmaan (prima rappresentazione italiana) e Il tenente di Inishmore di Martin McDonagh (2004 – prima rappresentazione italiana)
Martin McDonagh, commediografo, sceneggiatore e regista britannico di origini irlandesi vanta una carriera di prim’ordine con una serie impressionante di riconoscimenti. Di lui nel 1998 Valerio Binasco aveva diretto per lo Stabile La bella regina di Leenane. Marco appunto nel 1999 e nel 2004 ne affronta altri due testi di forte impatto tragico con esito straordinario. Cito Marco: “Perché mi piace così tanto Mc Donagh: in lui c’è una esibizione di violenza sempre sconfinante nel grottesco e nel comico che, fatte le dovute proporzioni, mi ricorda il cinema di Tarantino. Mi piace perché scrive in forma classica, perché la sua scrittura non ha nello sperimentalismo la sua caratteristica. Racconta storie paradossali, grottesche, violente. Si fa ancora carico di una grande questione, quella di narrare una storia. E quindi al di là delle strutture che possono anche essere originali, ci porta in un mondo preciso e scomoda i grandi sistemi. La drammaturgia minimalista, nevrotica in cui veniamo spesso trascinati in teatro per farci semplicemente scoprire che il frigorifero è vuoto, o per spremere i foruncoli delle piccole nevrosi dei personaggi, delle piccole o grosse crisi matrimoniali, della omosessualità, non mi interessa. Oggi c’è tanta, troppa drammaturgia che non “racconta”.”

2008 – La tragedia di Re Lear, segnò l’ultima collaborazione con la compagna di vita e d’arte Valeria Manari che concepì una straordinaria scenografia. Scomparsa troppo presto Valeria ha lasciato una impronta importante negli allestimenti dello Stabile firmando con lui alcuni dei titoli più importanti degli ultimi anni, da Morte di un commesso viaggiatore (2005) a L’illusion comique (2005) a, appunto, La tragedia di Re Lear.
E’ noto che Verdi a più riprese cercò di trasporre in musica Re Lear ma finì per rinunciare. E a Mascagni che gliene aveva chiesto la ragione aveva risposto: “La scena della tempesta mi ha spaventato; mi era difficile rendere musicalmente la pazzia del savio e la saggezza del matto”.
Mettere in scena Re Lear è sempre un problema per un regista.
Leggiamo Marco: “Affrontare Re Lear è come fare la scalata all’Everest. Tu sai che non arriverai alla vetta, però ci provi e sarai contento se arriverai al terzo campo o al chilometro finale prima della vetta. Ecco perché il lavoro dell’interprete è importante perché ognuno può far tesoro della esperienza altrui. Ed ecco perché sono sempre infastidito da chi dice che il lavoro degli altri non lo interessa. Io sono un furioso analizzatore del lavoro degli altri. Se affronto Re Lear vedo più Re Lear che posso e leggo più saggi che posso. Re Lear è di una complessità totale. Ogni testo ha una scena emblematica. Quando ho detto all’amico Gabriele Lavia che avrei messo su questa tragedia la prima domanda che mi ha fatto è stata: “Come fai la tempesta?” Perché quella è la grande scena da decifrare…. Ci deve essere la tempesta, ci deve essere la disperazione. E poi nella prosa si debbono capire le parole. Ma ogni testo ha un momento difficile dal punto di vista registico. Se fai Borkman un collega ti chiede: come fai l’ultimo atto? O come realizzi il primo e il secondo piano della casa?…”

2014 – Il sindaco del rione Sanità di Edoardo De Filippo con Eros Pagni grande interprete anche di altri testi fondamentali messi in scena da Marco, come i già citati Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (lo straordinario lavoro vincitore di più Premi che potremo vedere nei prossimi giorni) e come l’Illusion comique di Corneille.

2017 – Il gabbiano di Cechov – Marco è stato molto legato alla letteratura russa. . Nelle nostre conversazioni mi ha citato come un romanzo cult della sua vita Oblomov di Goncarov. E ha amato follemente Cechov, affrontato con un grande rispetto filologico. Tornando al tema delle traduzioni, a proposito di Cechov, Marco mi aveva osservato:
“Cechov aveva un lessico di non più di trecento parole, non ne usava mai di più. Allora se prendi la parola che si traduce con brigante, ma può essere anche canaglia, bandito ecc., devi scegliere la traduzione che ti convince di più e poi usare sempre la stessa che diventa ossessiva. Se invece cambi per rendere più vario il discorso in realtà tradisci Cechov. I traduttori non capiscono, spesso, che la stessa parola usata in un contesto differente per certi aspetti cambia e quindi la varietà è in realtà dettata dalla drammaturgia”.
Curiosamente, nonostante questo amore, Marco dei grandi titoli cechoviani (penso a Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi, Zio Vania e Il gabbiano, ha messo in scena solo quest’ultimo, due anni prima del ritiro, ritrovando un’attrice a lui cara come Elisabetta Pozzi.

2018 – John Gabriel Borkman di Ibsen con Gabriele Lavia.
I rapporti con Lavia risalivano al 1996 quando i due artisti si ritrovarono insieme per la prima volta in Ivanov di Cechov. Da lì una collaborazione assidua che sulla carta non era certo facile. Gabriele Lavia oltre che straordinario attore è spesso regista di se stesso e imporre una regia ad un attore-regista non è sempre semplice. Ma fra i due c’era un’affinità interpretativa straordinaria che si è potuto constatare non solo nel Cechov del ’96, ma anche in Borkman, nel Don Giovanni di Molière (2000) e in Un nemico del popolo di Miller da Ibsen (2002).

2019 – La favola di Amleto di Shakespeare e Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Stoppard
I due ultimi spettacoli ci consentono di ricordare Marco non solo come regista ma anche nella veste di direttore e insegnante della Scuola di Recitazione cui è stato profondamente legato tutta la vita. La particolarità dello spettacolo era il ricorso alle maschere. In conferenza stampa, Marco aveva spiegato: “Abbiamo recuperato le maschere che Benno Besson aveva usato per Il cerchio di gesso del Caucaso. E’ stata una esperienza didattica estremamente interessante. Un lavoro lungo mesi. Inizialmente utilizzavamo le maschere come esercizio teatrale: cancellare i tratti fisici dei singoli attori per lavorare sulla creazione dei personaggi da una prospettiva diversa. Successivamente ho capito che l’effetto di straniamento così creato faceva emergere la storia di Amleto come una fiaba arcana, ricca di sfumature e particolarità ma al contempo universale nei suoi aspetti tragici e grotteschi”.