Livermore: reinventare gli spazi per fare arte

“Pensavamo che bastasse la nostra tecnologia, possedere uno smartphone per preservarci da qualsiasi cosa. E invece siamo fragili come sempre. Così è stato ai tempi di Shakespeare con la peste che portò alla chiusura dei teatri per due anni; così è stato ai tempi di Verdi che produsse le sue opere in mezzo a guerre. Ci siamo illusi di poter controllare la nostra vita e ora dobbiamo fare i conti con una realtà diversa.”

E’ il commento di Davide Livermore, regista, da quattro mesi circa direttore del Teatro Nazionale di Genova. Lo abbiamo sentito via Skype al suo ritorno dalla Spagna: “Ero a Valencia per lavoro. In Spagna c’è la stessa situazione che si aveva in Italia un paio di settimane fa, ma con un maggior numero di contagi. E’ una situazione molto preoccupante”.

– Prima di approdare al Teatro Nazionale ha avuto rapporti con l’ambiente genovese, ha firmato le regie di quattro spettacoli al Carlo Felice: “Don Giovanni”, “Otello”, “Carmen”, “Billy Budd”…

“Esatto. Fra la prima regia e le altre passarono alcuni anni e cambiò la situazione del Teatro. Nel primo caso si era ancora in un periodo fiorente”…

-Era il 2005, Genova usciva dall’anno di capitale europea della musica e quel ruolo aveva portato nelle casse dei teatri un buon fondo. Poi purtroppo il clima è mutato. Ma bisogna anche ricordare che per circa due anni Lei è stato anche registe residente al Carlo Felice…

“E’ vero. Mi chiamò a sorpresa il direttore artistico Giuseppe Acquaviva e ne fui lusingato. Lavorai accettando anche di attingere a fondi di magazzino per realizzare allestimenti dai costi contenuti, condividendo il periodo di difficoltà economica. Una bella esperienza, unica in Italia, della quale nessuno però ha mai parlato e non so perché”. 

-Poi è arrivata la chiamata dalla prosa…

“Nel caso del Teatro Nazionale, la situazione è stata del tutto diversa: mi hanno cercato la politica, il consiglio d’amministrazione, il neo presidente Giglio con l’idea, penso, di sovvertire l’idea delle nomine (tutte eccellenti, per carità) che in genere si ripetevano nell’ambito dei Teatri di prosa italiani…”

-Come si è trovato al suo primo impatto con il Teatro che fu di Chiesa?

“Sono rimasto colpito dalla qualità delle persone che ci lavorano. Il mio predecessore Angelo Pastore ha fatto un gran lavoro mettendo insieme due teatri come il Nazionale e l’Archivolto. Debbo continuare sulla strada tracciata da coloro che mi hanno preceduto. Questo Teatro  che è il secondo se non il primo a livello nazionale (e posso dirlo perché l’ho ereditato così) ha una grande storia della quale sono consapevoli tutti all’interno. Le faccio un esempio. Nei teatri di solito il personale per le pulizie arriva da una ditta esterna. Qui no, li ha voluti all’interno lo stesso Chiesa. Ebbene in tutti loro c’è la piena consapevolezza di cosa sia un teatro, l’orgoglio di lavorarci.  E poi questa consapevolezza credo sia di tutta Genova una città che ha sempre amato i suoi teatri”.

-Cosa possiamo aspettarci dunque nei prossimi mesi? Su cosa sta lavorando?

“Dobbiamo intanto inventarci luoghi non convenzionali che ci portino ad uscire dalle sale chiuse. A Valencia realizzai tempo fa un’edizione di Bastiano e Bastiana di Mozart su un camion. Possiamo pensare a Api Piaggio da sistemare nei cortili per i bambini o a una nave o una chiatta nel porto per grandi produzioni…”

-Mi viene in mente L’histoire du soldat”che Stravinskij pensò in tempo di guerra per un carro ambulante che potesse girare le piazze…

“Esattamente. E questo mi permette una osservazione. Nessuno inventa nulla. Di fronte alle tragedie bisogna riguardare alla storia e trovare soluzioni che possano servire al momento e che magari sono già state collaudate in un passato più o meno lontano. L’importante è che noi si trovi il modo di esistere. Il FUS (Fondo unico per lo spettacolo) non esiste per Netfix ma per consentirci di produrre arte. Perché, attenzione: noi non facciamo intrattenimento, facciamo arte e questo bisogna che tutti lo ricordino sempre”. 

-Ma secondo Lei in autunno cosa accadrà?

“Non ho la sfera magica, non posso saperlo. Però, si sente parlare della ripartenza del campionato di calcio e mi domando come si possano immaginare gli allenamenti mantenendo la distanza di due metri. Una destra fascista vuole poi utilizzare la Chiesa per fare propaganda  obbligando persino il Papa a invitare alla prudenza. E allora mi domando: perché dei teatri non parla nessuno?”. 

-Intanto il settore è terribilmente in crisi. I cantanti lirici sono in subbuglio. Come Lei sa bene (non solo nella sua veste di regista ma anche come ex cantante) i cantanti sono pagati solo per le recite che sostengono e non per le prove, il che significa che se una produzione viene sospesa (come ad esempio è avvenuto con questa pandemia) poco prima dell’andata in scena chi stava provando ha perso tutto. E’ il retaggio di una tradizione contrattuale che risale agli anni Trenta. Ora la si vorrebbe cambiare individuando nei contratti anche una quota per le prove…

“Sono perfettamente d’accordo e credo che questo costituirebbe una garanzia di miglior qualità per gli spettacoli. Oggi molti cantanti lavorano con grande professionalità per tutte le prove, ma ci sono anche artisti che  cercano di ridurre allo stretto necessario la loro presenza prima delle recite. Se le norme venissero modificate il risultato non potrebbe che essere positivo. Noi, lo dicevo prima, non facciamo spettacolo ma arte. E l’arte ha bisogno del suo tempo”.

 

Si ringraziano per le courtesy foto il Teatro Nazionale, Francesco Maria Colombo e Studio Leoni.