Il Trespolo tutore, scommessa vinta

Gli ultimi decenni delle Fondazioni liriche italiane sono state caratterizzate, in piena crisi economica, dalla ricerca ossessiva della platea affollata, possibilmente esaurita. Perché con la diminuzione del FUS e la difficoltà crescente di reperire sponsor, il botteghino è diventato sempre più importante. Di qui la scelta di puntare prevalentemente sul repertorio più popolare: quante Mimì morte di tisi, quante Rosine capricciose, quante Lucie impazzite d’amore, quante Ciociosan costrette al suicidio!

Ragionamenti ineccepibili, conti alla mano, che, tuttavia, si scontrano con l’obbiettivo centrale che sta alla base dell’esistenza stessa delle Fondazioni, ovvero quello di “fare cultura”. Il che significa: ben vengano le Traviate, le Bohème, le Butterfly, monumenti fondamentali del teatro lirico di tutti i tempi. Ma diamo anche un’occhiata a epoche più lontane e non dimentichiamoci il Novecento con la ricchezza straordinaria delle sue articolate sperimentazioni.

La premessa per sottolineare il coraggio che ha avuto il Carlo Felice a scegliere per la sua inaugurazione Il Trespolo tutore che Alessandro Stradella mise in scena nel 1679 qui a Genova al Teatro del Falcone. Un’opera, diciamolo francamente, sconosciuta in pratica a tutti, con la sola eccezione di qualche musicologo o qualche maniaco del barocco.

Un’opera, ancora, dai mezzi estremamente ridotti: sei soli cantanti in scena, assenza del coro, in buca uno strumentale esiguo formato da due violini, violoncello, contrabbasso, due tiorbe, un’arpa barocca, una viola da gamba e una tastiera antica. C’era di che perdersi sul palcoscenico enorme del Carlo Felice, ma anche nella buca (alzata, ci è sembrata, per l’occasione) abituata ad accogliere ben altro organico.

L’operazione in realtà ha funzionato. Il teatro era abbastanza gremito, tenendo conto dei posti contingentati (ma la quota mille è irraggiungibile per qualsiasi altro teatro italiano) . Certo le recite sono solo due (con un’anteprima aggiunta) perché sarebbe difficile ipotizzare una presenza più massiccia di spettatori. Ma chi ha assistito allo spettacolo, al termine ha applaudito calorosamente e nel secondo tempo gli applausi a scena aperta sono stati anche numerosi. Merito di Stradella, certo, ma anche dell’allestimento genovese.

L’opera si basa su un bel libretto che il poeta Cosimo Villifranchi trasse da una commedia scritta da G.B.Ricciardi. Un testo davvero interessante del quale va sottolineato non solo il linguaggio assai più licenzioso di quello cui ci ha abituato una certa librettistica bigotta ottocentesca, ma anche l’invenzione di situazioni provocatorie, come ad esempio, l’idea di un matrimonio fra due donne!

L’aggiunta dell’aggettivo “balordo” nella successiva edizione bolognese dell’opera la dice lunga sulla dabbenaggine del protagonista Trespolo, tutore di Artemisia che di lui è innamorata. Il problema è che tutti in realtà sono in cerca di amore, ma nessuno è corrisposto, per cui si crea un intricato meccanismo che, come vuole il teatro barocco, si scioglierà alla fine in maniera abbastanza imprevista e incoerente.

La partitura di Stradella privilegia il recitativo secco. Qua e là si sviluppano brevi arie e talvolta i personaggi danno vita a duetti. Siamo, è bene ancora ricordarlo, negli anni conclusivi del Seicento. Una rigorosa definizione delle strutture interne dell’opera deve ancora essere realizzata e lo sarà nel Settecento grazie alla scuola napoletana dove si svilupperà anche il teatro comico. Il Trespolo ne rappresenta una geniale anticipazione nei caratteri, negli intrecci, forte di una tradizione che affonda evidentemente le proprie radici nella commedia dell’arte. Ancora, da notare, l’utilizzo delle voci maschili per i personaggi femminili e viceversa. Un atteggiamento tipico dell’epoca (segnato dal trionfo delle voci acute, castrati e soprani) che non sarebbe passato poi nella tradizione dell’opera comica nella sua maturità settecentesca, privilegiando questa, nel nome di un maggior realismo narrativo, voci naturali come baritoni, tenori, soprani, bassi. E non è un caso che Trespolo, personaggio autenticamente comico, abbia appunto voce di basso.

Per l’allestimento genovese la scenografa Leila Fleita ha ideato uno spazio  molto semplice, geometrico. Ha ridotto il palcoscenico grazie a quinte più sporgenti, ha delimitato lo spazio con una serie di cornici illuminate e ha strutturato la sezione interna con una ampia scala. Una scelta, condivisa dai registi Paolo Gavazzeni e Pietro Maranghi, di evitare qualsiasi ambientazione barocca e puntare su una narrazione atemporale, evidente anche nella scelta dei costumi di Nicoletta Ceccolini. Merito dei registi è stato quello di non appesantire con lazzi eccessivi il testo, ma di organizzare una lettura ordinata, priva di enfasi, finalizzata a dare il più ampio risalto alla musica e alle parole.

Sul podio del piccolo complesso strumentale c’era un direttore esperto quale Andrea De Carlo che ha curato ogni dettaglio e garantito una lettura ben equilibrata fra orchestra e voci, anche se in certi momenti la eccessiva distanza fra i cantanti e la buca qualche problema ci pare lo abbia creato in termini di rapporti dinamici.

Eccellente il gruppo strumentale e bravissimi tutti gli interpreti per qualità vocali e per la verve mostrata sul palcoscenico.

Marco Bussi è stato un ottimo Trespolo, Raffaella Milanesi ha sostenuto con abilità il ruolo più patetico di Artemisia, Carlo Vistoli ha risolto con raffinato gusto musicale il ruolo di Nino, mentre  Juan Sancho ha vestito con ironia i panni di Simona, Silvia Frigato ha evidenziato un bel bagaglio tecnico nella parte di Ciro e Paola Valentina Molinari ha risolto con brillantezza quello di Despina.