Il primo disco di Blues e Mamie Smith

Il 14 febbraio 1920 uscì per la Okeh Records Crazy blues, un brano composto da Perry Bredford e cantato da Mamie Smith. Il disco ebbe uno straordinario successo e vendette più di un milione di copie in sette mesi, circa ottomila la settimana: pare che i negozi di musica dei quartieri neri non facessero a tempo a riordinarlo che subito ne restavano senza.

L’anno segnò dunque l’inizio dell’ “età del disco di blues” (le prime registrazioni jazz risalgono invece a tre anni prima) e fu anche l’anno in cui cominciarono le trasmissioni radiofoniche (la prima è del 14 settembre 1920), anche se il boom vero e proprio in tale ambito si verificò soltanto due anni dopo.

Senza dubbio si trattò di un momento fondamentale nel mondo della musica afroamericana: per la prima volta le case discografiche si resero conto che i dischi race potevano essere un buon affare. Il nero consumatore era una prospettiva assolutamente nuova, segnale anche questo della profonda trasformazione che il ruolo dei neri aveva avuto nel Nuovo Mondo: lo schiavo africano – quello dei canti tribali – già trasformatosi in schiavo americano – quello degli shout, degli hollers e degli spirituals – e infine affrancatosi non senza difficoltà, si era ormai adattato all’America ed aveva adottato gli States come propria nazione, portando a maturazione quel genere originalissimo che è il blues, tutto nero eppure non più africano, espressione evidente dell’identità afroamericana e della sua sofferta integrazione all’interno della società statunitense.

Ed è significativo che proprio una donna, Mamie Smith appunto, sia stata protagonista di questo evento memorabile e soprattutto non isolato. Da quel momento infatti, le registrazioni di blues al femminile e in generale il successo delle cantanti donne aumentarono ancora, per lo meno fino al fatale “giovedì nero” del ‘29, tanto che si può dire che il blues classico fu prevalentemente diffuso dal gentil sesso (a differenza del country blues, cantato per lo più da uomini).

Le voci del blues degli anni Venti furono dunque principalmente donne. Mamie Smith, Ma Rainey, Ida Cox, Victoria Spivey fino alla grande Bessie Smith furono le prime professioniste del genere, spesso giovanissime: la Rainey iniziò a quattordici anni, Bessie prima dei venti.

“Quasi tutti i blues classici sono cantati da un punto di vista femminile, oltre il settantacinque per cento dei testi rispecchia la prospettiva femminile” scrivono Odum e Johnson in Negro Workaday Songs. E questo in fondo è naturale, vista la specificità di un genere che esprime in musica emozioni semplici, legate al quotidiano, stati d’animo individuali legati all’amore, al senso della vita e della morte: sentimenti insomma particolarmente consoni all’universo e alla sensibilità femminili.

Non doveva essere semplice per una donna di quei tempi, per di più di colore, affermarsi nel mondo dello spettacolo. Si trattava dunque di personalità di grande rilievo anche sotto il profilo caratteriale: erano vedette davvero complete e di grande carisma, spesso anche attrici e ballerine, che avevano mosso i loro primi passi nel mondo del minstrel show e del vaudeville. La loro determinazione verso il raggiungimento del successo aumentò ulteriormente quando apparvero anche le cantanti leggere bianche e si affermò il movimento delle suffragette. “Tutto ciò – afferma Le Roy Jones nel saggio Il popolo del blues – rese il mondo dello spettacolo estremamente affascinante agli occhi delle donne nere, dal momento che prometteva un’indipendenza e un prestigio non altrimenti raggiungibili attraverso le strade più consuete come la chiesa, il lavoro domestico, la prostituzione”.

Molto spesso poi queste cantanti erano anche autrici dei loro brani: da Ma Rainey a Bessie Smith, da Sara Martin a Victoria Spivey, le sciantose americane degli anni ruggenti firmarono testi e musica di diversi pezzi dei loro vasti repertori, spesso ispirandosi alla fonte inesauribile del patrimonio folklorico.

Protagonista delle storie narrate nei brani è spesso una donna che deve sopportare i maltrattamenti e gli abbandoni di mascalzoni vigliacchi e traditori, come recitano i versi di Crazy blues:

I can’t sleep at night / I can’t eat a bite / cause the man I love / he didn’t treat me right. / Now I got the crazy blues / since my baby went away / I ain’t got no time to lose / I must find him today.

Riconosciamo in questo testo molte parole tipiche che si ritroveranno in seguito in molte altre canzoni, in particolare l’espressione “I got the crazy blues”, che pare derivi dalla locuzione idiomatica dell’Inghilterra elisabettiana “to have the blue devils” con cui si indica uno stato di profonda tristezza e malumore.

I blues musicali sono il modo migliore per scacciare il blues, ovvero l’angoscia, il disagio, lo spleen. Non si è perso dunque quel carattere di sfogo che avevano gli shout e gli hollers per gli schiavi neri che lavoravano nelle piantagioni del Sud, anche se allora a cantare era una collettività prigioniera ed ora un individuo, non più in catene e tuttavia ancora schiavo del proprio malessere psichico. Immutato è quel senso di “rassegnazione combattiva”, di “ribellione stanca”, per usare degli ossimori che ben esprimono quell’atteggiamento contraddittorio tipicamente nero da cui scaturisce il blues. E quelle blue notes – quel terzo e settimo grado abbassati, che non sono che il risultato di una scala africana, forse pentatonica, forse priva di semitoni, ma comunque estranea al sistema diatonico occidentale – rappresentano perfettamente quello stato d’animo incerto, nella loro intonazione imprecisa, nella loro ambiguità che le voci nere sanno rendere con mobile vaghezza, scivolosi glissati, vibrazioni intense, rauchi parlati e sottili legati.

In realtà Crazy blues fu il secondo disco inciso da Mamie Gardener, in arte Smith. Il primo, sempre per la Okeh Company di New York, aveva avuto scarso successo. La vocalità di Mamie era più raffinata rispetto a quella di altre cantanti blues, più vicino alla tradizione del Vaudeville. Originaria dell’Ohio (nata a Cincinnati nel 1883) era in fondo una cantante del Nord ed aveva uno stile abbastanza sofisticato, leggero, influenzato dalle suggestioni dei varietà che si allestivano sui palcoscenici cittadini. Il gruppo creato per accompagnarla in Crazy blues, chiamato Jazz Hounds, aveva inoltre marcate influenze jazzistiche, con strumenti a fiato come la cornetta e il clarinetto che avevano un ruolo guida.

Carica di collane e anelli, vesti luccicanti e piume di struzzo, Mamie aveva una voce potente e penetrante e sapeva incantare intere platee. Il successo per lei fu immediato e grande, tanto che la sua esistenza divenne in breve tempo assai lussuosa: pare vivesse in una villa fastosa con una pianola in ogni stanza. Eppure Mamie nel 1910 aveva iniziato calcare le scene come semplice ballerina in una compagnia di minstrels. Si era poi sposata con William Smith e nel 1912 si era trasferita con lui a New York dove aveva cominciato a lavorare anche come pianista e cantante. Nel 1918 aveva conosciuto Perry Bredford, l’autore di Crazy blues.

Anche l’incisione del famoso disco fu, tra l’altro, un caso fortuito per lei: fu chiamata infatti in extremis per sostituire la cantante prevista per la registrazione, Sophie Tucker, ammalata. Da allora la sua carriera decollò con numerosi altri successi per quasi un trentennio, fino alla morte avvenuta nel 1946 a New York.