La commedia umana di Ai Weiwei

Il 27 marzo 2022 mi trovavo a Roma, reduce la sera precedente dell’esperienza di uno spettacolo unico nel suo genere : Turandot di Giacomo Puccini per la regia di Ai Weiwei, realizzato al Teatro Costanzi sotto la bacchetta della direttrice ucraina Oksana Lyniv alla testa dell’Orchestra dell’Opera di Roma , un solo mese dopo l’invasione dell’Ucraina. Il famoso artista cinese, oppositore del regime e, come suo padre poeta, perseguitato ed esiliato per la difesa dei diritti umani, aveva accettato di confrontarsi  come regista con il mondo del melodramma , forse anche perché memore di un’esperienza come figurante in una Turandot curata da Zeffirelli al Metropolitan di New York in età giovanile, ne era rimasto colpito. Inutile dire che l’opera mi catturò completamente. Inizialmente spiazzato dai numerosi video presentati sui fondali, intrisi di scene di guerra, persecuzioni e migrazioni di popoli in fuga che si sovrapponevano alle scene sul palcoscenico riguardanti i temi dell’opera, gradualmente, dopo essermi confrontato con una mia amica esperta d’arte, cominciavo ad afferrare quei segni, quei significati che mi permettevano di entrare nella lettura complessa ma coerente del regista cinese del capolavoro pucciniano.. Nondimeno apprezzai , come accadde alla prima rappresentazione a due anni dalla morte del compositore al Teatro alla Scala quando il maestro Toscanini posò la bacchetta sul leggio e voltandosi al pubblico, dopo la morte di Liù , disse “ L’opera finisce qui perché a questo punto il maestro è morto”, che , anche qui, a Roma la direttrice Lyniv   , facesse terminare l’opera a questo punto, senza dar corso allo stucchevole ed  edulcorato Finale creato da Franco Alfano.

Ma più che parlare di questo, l’obiettivo della mia riflessione è La commedia umana, un colossale e paradossale “lampadario”  realizzato dallo Studio Berengo di Murano in vetro soffiato a mano e fuso su progetto dello stesso Ai Weiwei ed esposto presso le enormi sale delle Terme di Diocleziano vicino alla stazione Termini.  Avendo letto occasionalmente su “Repubblica” l’affascinante articolo di Lara Crinò che l’esposizione dell’opera sarebbe durata solo 9 giorni, non potevo, coinvolgendo un compagno di viaggio, permettermi di perderla. Accelerando il passo, perché il tempo a disposizione non era molto per salire sul treno per il ritorno a Genova, quando mi ritrovai a un passo dal “lampadario” rimasi pietrificato! Per usare le giuste parole della Crinò : “qualcosa di bellissimo e disturbante da guardare”.

Nell’opera viene usata la fragilità del vetro per raccontare la vita e la sua fine. Un enorme lampadario, costituito da più di 2000 pezzi: ossa , organi interni, cuore, cranii , ossa di animali alto 9 metri per 6 metri di larghezza. Focus dell’artista è l’uomo sociale e l’uomo interiore. Oltre Balzac, l’altro riferimento è la Commedia di Dante perché parla di vita e di morte come due facce della stessa medaglia. Con l’avvento della Pandemia e successivamente della guerra è difficile sottrarsi al tema della morte e delle riflessioni che questa induce.

“Gli artisti- e non solo loro aggiungerei- devono conoscere se stessi e attraverso questo conoscere il mondo” afferma Ai Weiwei. “ Se non sono in grado di farlo, non sono artisti. La paura, il terrore sono una sorgente dentro di noi: senza la paura, non andremmo a cercare la pace, il senso di sicurezza, neanche la felicità o l’amore.”

Cuore, colon, reni, cranio, encefalo, midollo spinale, costole sembra ci interroghino e, palesandosi nelle loro nudità costituiscano il nostro specchio. Detti elementi, essendo parti costitutive di un “lampadario”, hanno la finalità di gettare luce sull’enigma del vivere, sulla complessità della vicenda umana, sulla sua fragilità.

Non lo sa Calaf che sfida gli enigmi della Principessa di gelo; non lo sa Liù che si ammazza per amore; non lo sa Turandot che non sapremo mai se si concederà al Principe Calaf; non lo sa chi guarda, dopo avere studiato, letto, visto e vissuto migliaia di esperienze.