Assistendo – anzi, partecipando – a due degli spettacoli di danza butō proposti a Palazzo Ducale nella giornata speciale di “Testimonianze ricerca azioni”, il festival del Teatro Akropolis, si ha costantemente l’impressione di perdersi qualcosa. La responsabilità non va cercata certo nei corpi dei danzatori, né nei loro lavori, bensì nei nostri sensi, troppo abituati al chiasso e a registrare solo fatti grossolani. Se si riesce, da spettatori, ad abbandonare il proprio ego e a connettersi totalmente, senza riserve, a quanto arriva dalla scena, qualcosa di invisibile comincia a schiudersi: allora sì, l’esperienza diventa totale e fiorisce in tutta la sua intensità.
“Corpo d’acqua” di Stefano Taiuti e “Consumed by the Invisible” di Moeno Wakamatsu con Lê Quan Ninh hanno molti meriti: primo tra tutti, quello di far intuire la presenza di una realtà non intellegibile se non attraverso la carne. Nel primo lavoro, presentato nella Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale, il danzatore nudo emerge dal buio per offrire il proprio corpo alla luce. Percorre una passerella di feltro nera e raggiunge uno specchio delle dimensioni di un vassoio sul quale è stato versato un velo d’acqua. Le luci amplificano i riflessi, dell’uomo come del liquido mosso da invisibili correnti. Il lavoro, come Taiuti stesso spiega nel saggio contenuto nel libro pubblicato in occasione dei Festival, consiste nel «lasciare che qualcosa accada, indietreggiare e tornare nell’ombra». Il suo linguaggio si dipana da una posizione specifica del corpo, chiamata stalk dal mestro di Taiuti, Masaki Iwana, scomparso nel 2020, del quale il giorno stesso al Ducale è stato presentato il film “Vermilion Souls”. Stalk è un corpo allungato in verticale sulle mezze punte dei piedi, tenuto a lungo in una posizione che, alla fine, provoca una vibrazione chiamata drill. Quella vibrazione è danza in potenza: Taiuti la coglie e la amplifica, la lascia riverberare in un corpo fatto strumento. Compito dello spettatore è farsi egli stesso strumento per consentire alla stessa vibrazione di passare attraverso di sé. In un equilibrio instabile, Taiuti si fa fiamma e vuoto, si accascia sullo specchio sollevando piccoli spruzzi d’acqua. Il suo sguardo diventa specchio; non è lui a respirare, ma il respiro a muovere il suo ventre come se fosse una creatura indipendente. Non è solo il movimento a tracciare un solco nell’anima di chi guarda, ma l’insieme di suono e riflessi che travolgono l’oro delle pareti: dettagli di un mondo reale e scomparso dentro di noi.
L’identica sensazione di scoperta è data dal lavoro di Moeno Wakamatsu, “Consumed by the Invisible”. Qui le percussioni di Lê Quan Ninh fanno la parte di quell’aggregato di sensazioni insondabili che si insinua nelle nostre vite ordinarie e le travolge: «Gran parte del mondo ci è invisibile nella vita ordinaria» scrive Wakamatsu «ma se e quando scivoliamo nella fessura del tempo, intravediamo le immagini che fuoriescono da questo mondo invisibile. Allora, come artisti, crederemo pienamente nell’invisibile e lasceremo che la nostra presenza ne sia consumata». Il corpo artistico di Wakamatsu si lascia consumare da ciò che noi possiamo soltanto intuire. Vestita con un kimono scuro attraversato da foglie e fiori azzurri, la danzatrice offre il suo viso lunare stravolto da un grido mai espresso. Attraversa la scena, obbedendo agli impulsi che si materializzano nel suo corpo. Mette a rischio l’equilibrio e la sua danza, portandola agli estremi dell’immobilità, e poi riprendendola seguendo un dettato profondo. Forze impalpabili attraversano il Salone del Maggior Consiglio, storicamente abituato a ben altre esibizioni: il tempo passato sembra farsi carne, mentre lei sente quelle forze e le raccoglie, donandole a chi guarda.
Non sono frequenti le occasioni per godere di uno spettacolo di danza butō, ed è per questo che vanno necessariamente colte. La volontà dello spettatore, che deve abbandonare per i tempi dell’esibizione i ritmi vorticosi di un mondo senza più pace, è premiata dalla scoperta di un lago profondo di quiete e sensibilità. In quelle acque ci si sente accolti e, finalmente, amati.