Altra bella scoperta al Teatro della Tosse di Genova. Questa volta, sino all’8 aprile è il turno de “Le relazioni pericolose”, terreno tutto da esplorare tra colpi di fioretto del Linguaggio con la Parola. Si passa così dal Linguaggio, come mezzo di comunicazione interpersonale, alla Parola come forma di mediazione della realtà. In mezzo stanno le idee che frangono un vero e proprio campo di battaglia tra razionale ed irrazionale, tra potere e pura vanità, tra passione e pentimento. Si rintraccia tutta la violenza delle diverse ideologie, muri compresi, oltre che i differenti stili della struttura epistolare, in cui si gode il lavoro di ricerca di filosofi e letterati: da Artaud a Pier Paolo Pasolini, da Friedrich Nietzsche a Simone Weil e Fedor Dostojevskij, per citare i nomi più emblematici.
Eppure non c’è nessuna frase fatta, alcuna stilettata inutile; la regia semmai porta negli abissi più dolorosi, senza fare sconti o strizzare l’occhio al pubblico. L’opera di Laclos (pubblicata a Parigi nel 1782), viene così riscritta sprigionando un inaspettato potenziale, mentre le macchie del peccato e le cicatrici del vaiolo invadono le proiezioni sullo schermo sino alle sagome degli attori arresi, che espiano le proprie colpe con la vita. In scena, accanto ad un cast di attori dalla consolidata esperienza quali Elena Ghiaurov, Monica Piseddu ed Edoardo Ribatto, si distinguono anche i giovani Flavio Capuzzo Dolcetta, Livia Rossi, Ugo Fiore e la compositrice e sound designer Federica Furlani.
Tanti i paralleli tra la Parigi salottiera di metà Settecento, minacciata, quasi senza accorgersene, dall’epidemia di vaiolo, cerebrale anco prima che corporea, con la realtà assonata di certa Italia e la pandemia, anche se nel caso francese si sfocia nella Rivoluzione per eccellenza. Sotto e sopra fili da manovrare abilmente, tali e quali a quelli di un burattinaio: sono quelli con cui la Marchesa di Merteuil e il Visconte di Valmont giocano sulla vita delle persone. Vittime e carnefici a un certo punto si confondono e si dissolvono nella reciprocità, nel tonfo sordo di un incedere, nel rapimento del desiderio, nella farsa della conquista che svanisce come l’illusione del possesso, nelle arcate di un violino che stride come i sentimenti in un cuore alle prime armi. O come l’ascesso collettivo che rivela il teatro, il nascosto che si cela dietro il perbenismo della società.
Facile ritracciare nel discorrere della Marchesa di Merteuil la filosofia del Superuomo di Nietzsche , in contrapposizione alla debolezza della giovane Cecile, non a caso somma di citazioni e più frammentata. Come al solito, secondo i migliori stereotipi duri a morire, la guerra è tra due donne…
Trionfa, infine, la corruzione della carne che sconfina in suoni spettrali, enfatizzati dalle scene cupe in cui i corpi duellano eternamente, perché come scriveva René Girard “l’Uomo diventa veramente Uomo solo nella Guerra”, eppure nessuno vince, semmai tutti ne escono sconfitti.
Risalta solo la debolezza, la corruttibilità dell’uomo, il gusto della sopraffazione, sia essa sessuale o del potere tecnocratico, assoluto, della donna che rompe i ruoli canonici della società, magari non risposandosi, magari con la stessa libertà di un uomo. Ne esce una visione contemporanea, a tratti disincantata, sicuramente marziale, premeditata, in cui il boudoir o le intime alcove passano decisamente in secondo piano. Finalmente una rilettura capace di distinguersi, da non perdere.