«I miei desideri si adempiono pur se in ritardo: già da tempo desideravo ardentemente che quanti più possibile dei miei seguaci mi abbandonassero il più presto possibile. Finalmente ciò è avvenuto; ma ora ho un altro desiderio ancora più ardente: avere il meno seguaci possibile». Lo scriveva nel 1925 Arnold Schoenberg uno dei “padri” della musica moderna di cui nell’anno in corso ricorrono i 150 anni della nascita. Una ricorrenza di cui, in verità, si sono ricordati in poco. Lodevole eccezione, ieri sera, il concerto inaugurale della tranche autunnale di La voce e il tempo. Nel piccolo e confortevole Teatro TiQu di piazzetta Cambiaso grazie a una collaborazione con l’Eutopia Ensemble si è potuto ascoltare il titolo culminante della visione espressionista di Schoenberg, Pierrot lunaire.

Schoenberg e il Pierrot
L’affermazione di Schoenberg riportata qui sopra, al di là dell’ironia del compositore viennese, appare terribilmente realistica e profetica. Quando Schoeberg morì nel 1949 un autorevole esponente del secondo Novecento musicale, Pierre Boulez, scrisse un articolo (Schoenberg è morto) nel quale senza mezzi termini accusava l’artista di aver “tradito” la causa modernista, di non aver avuto il coraggio di portare fino in fondo la rivoluzione annunciata con l’enunciazione del metodo dodecafonico. Veniva, insomma, incoronato Webern l’allievo geniale di Schoenberg e accantonato Schoenberg in una riflessione che in realtà conteneva un equivoco di fondo. Schoenberg, infatti, non è stato né si è sentito un rivoluzionario, ma un artista con i piedi ben piantati nella tradizione. Il metodo dodecafonico ebbe questa funzione: creare un “sistema” compositivo attraverso il quale poter riutilizzare le tecniche del passato, a cominciare dal contrappunto e dalla variazione. Nella turbolenta fase seguita alla seconda guerra mondiale, l’idea invece di fare tabula rasa portò a un concetto di serializzazione che andava ben al di là dei piani di Schoenberg. Ma accusarlo di conservatorismo, mi pare eccessivo…
Torniamo al Pierrot lunaire che nel 1912 alla sua prima esecuzione fu accolto con sgomento e sorpresa, al pari di quel che sarebbe accaduto l’anno successivo a Parigi per La sagra della primavera di Stravinskij. Nei due anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, insomma, due capolavori assoluti mostravano inesorabilmente come l’arte potesse essere celebrazione del “brutto” in una tragica profezia dell’ormai prossimo disastro bellico.
In Pierrot lunaire per voce recitante e cinque strumenti (pianoforte, violino o viola, flauto o ottavino, clarinetto o clarinetto basso e violoncello) Schoenberg ha musicato 21 poesie di Albert Giraud tradotte in tedesco da Otto Erich Hartleben. Sono dunque 21 melodrammi (parole recitate su accompagnamento musicale) divisi in tre parti comprendenti ognuno 7 episodi poetici.
Nel Pierrot Schoenberg porta a compimento il suo lavoro di ricerca espressiva sulla voce. La Sprechmelodie non è nè canto intonato nè recitar cantando. La voce recitata viene irretita in ritmi determinati, il che non costituisce una novità; l’originalità sta nella richiesta di una determinata intonazione che tuttavia non deve essere mantenuta rigorosamente, bensì oscillante. Nella Prefazione lo stesso Schoenberg dice che l’esecutore deve essere «scrupolosamente cosciente della differenza che corre fra “tono cantato” e “tono parlato”: il tono cantato conserva immutata la sua altezza, mentre il tono parlato con diminuendi e crescendi abbandona subito l’altezza iniziale. L’esecutore deve però guardarsi bene dal cadere in un tipo di parlare “cantato”. Non è a questo che noi tendiamo; non si ha certo di mira un modo di parlare realistico-naturale. Al contrario deve essere ben chiara la differenza fra il linguaggio comune ed un linguaggio che operi in una forma musicale; ma esso non deve neppure richiamare alla mente il canto». Più avanti Schoenberg chiude con questa raccomandazione: «Gli esecutori non devono tentare di dar forma ed espressione allo spirito e al carattere dei singoli pezzi, basandosi sul senso delle parole, ma sempre e soltanto ispirandosi alla musica. La rappresentazione pittorico-tonale degli avvenimenti e dei sentimenti esposti nel testo si trova senz’altro nella musica, nella misura in cui è stata sentita necessaria ed importante dall’autore. Perciò qualora l’esecutore si accorga che questa rappresentazione manca, rinunzi ad introdurre qualcosa che l’autore non ha voluto metterci. In questo caso non aggiungerebbe, ma toglierebbe».
Si è detto che l’apporto strumentale si limita a cinque strumenti. Solo in 6 brani tuttavia il gruppo è al completo. Negli altri invece Schoenberg varia la struttura di accompagnamento ottenendo timbriche e colori diversificati.
Un altro aspetto fondamentale va ancora osservato: il processo di frantumazione del linguaggio armonico, e di stravolgimento delle strutture ritmiche si realizza in un rigoroso lavoro formale.
Straordinario è, ad esempio, Macchie di luna, Mondfleck. E’ la storia di Pierrot che passeggiando si accorge di avere sull’abito dalla parte del dorso una macchia bianca, si guarda dietro, si strofina ma non riesce a cancellare la macchia perchè è una macchia di luna. Ebbene, l’atto di voltarsi e di guardarsi dietro è reso con un canone cancrizzante: a partire dalle parole «Einen weissen Fleck» (una macchia bianca) già pronunciate proprio in avvio di poesia, tutte le note del flauto, del clarinetto, del violino e del violoncello corrono all’indietro; nasce un’immagine perfettamente speculare della composizione che si conclude con le note dell’inizio. Schoenberg ricorre dunque a tecniche compositive che erano proprie dell’arte fiamminga.
L’esecuzione
L’esecuzione di ieri era affidata a Matteo Manzitti, compositore e direttore che ha ormai da tempo conquistato un ruolo importante nel tessuto culturale cittadino come “paladino” del Novecento in tutte le sue sfumature. Lo ha dimostrato anche ieri accostando a Schoenberg un’opera multimediale, MoonWall, creata dal compositore Sandro Mungianu e ispirata allo stesso Pierrot del quale riprende sia alcuni elementi musicali, sia nelle immagini associate alcuni temi delle poesie di Giraud. Il tutto in un contesto elegante ed evanescente.

Per l’opera di Schoenberg, Manzitti si è affidato alla voce di Clara La Licata e al gruppo di strumentisti formato da Arianna Musso (flauto e ottavino), Edoardo Lega (clarinetto e clarinetto basso), Damiano Barreto (violino e viola), Matilde Agosti (violoncello) e Valentina Messa (pianoforte). Un complesso collaudato che ha restituito al meglio la difficile partitura di Schoenberg. Lodevole anche la prova della cantante che ha dovuto destreggiarsi in una scrittura irta di insidie per la citata richiesta di Schoenberg di tenere una intonazione oscillante in un precario equilibrio fra canto e parlato: tecnica che porta spesso ad affidare la parte a cantanti non lirici.
Applausi calorosi.