Arturo Benedetti Michelangeli, musica e interiorità

Nel corrente anno 2020 succede che si compiano cent’anni dalla nascita di Arturo Benedetti Michelangeli. Per chi è nato nei primi anni ’60 ed ha avuto da subito un interesse musicale di ampio respiro, il nome di Benedetti Michelangeli faceva parte di un vero e proprio olimpo di esecutori, già affermati o emergenti, di eccezionale statura.

Citando i primi nomi che vengono alla mente per il pianoforte, oltre al nostro, vi erano Richter, Gilels, Rubinstein, Horovitz, Backhaus,il giovane Glenn Gould; per il violino Oistrak, Kogan, Menuhin, Stern per il violoncello Rostropovich, Fournier, la Du prè; e passando per un momento alla direzione gli dèi si sprecavano: Karajan, Celibidache, Stokowsky, Klemperer, Sawallisch, Mravinsky, Bernstein, Kondrashin, gli emergenti Svetlanov, Rozhdestvensky, Abbado. Molto tempo e passato ed oggi questi numi sono tutti nell’olimpo ultraterreno.

Personalità diversissime tra loro ma tutte di incredibile caratura.  Pensando ad una caratteristica che possa accomunarne molti, non può non venire in mente un approccio provvidenzialmente “sacerdotale” alla musica. Il momento esecutivo era per questi artisti una vera e propria liturgia, che rendeva viva la pagina musicale scritta, con la dovuta e sacrosanta fedeltà al testo. Fedeltà al testo non intesa come aridità, tutt’altro. Lontani dal divismo solistico spettacolare di stampo romantico, iniziato da Liszt, Paganini, Thalberg e compagnia, questi interpreti soprattutto a partire dalla maturità, esibivano un senso musicale sbalorditivo.

Benedetti Michelangeli si affaccia alla scena internazionale partecipando al Concorso Ysaye a Bruxelles nel 1938. Si classifica soltanto settimo (il vincitore sarà Emil Gilels); alcuni dicono che Carlo Zecchi gli avesse remato contro, insieme ad Arthur Rubinstein! L’anno successivo vince alla grande il Concorso di Ginevra, la cui commissione era presideuta nientemeno che da Paderewsky e comprendeva, tra gli altri, Alfred Cortot.

Alla carriera concertistica affianca quella di docente, attività che manterrà ostintamente fino agli anni ’90, dedicandosi gratuitamente e totalmente ai numerosi allievi. Di carattere difficile, schivo e mutevole, Michelangeli fu un perfezionista assoluto. Molti lo ricordano per gli annullamenti di concerti all’ultimo, a volte con il pubblico già in sala, per le sue disgrazie imprenditoriali, per una ritrosia accanita verso quell’ignobile parallelo di vita mondana pseudo  culturale che accompagna purtroppo la vita musicale concertistica. Ma queste sono inutili considerazioni di poveri diavoli che si cibano di cronaca, perdendo o peggio non volendo andare al di là di futili questioni.

Ad inizio carriera Michelangeli ebbe molti detrattori dal punto di vista musicale e stilistico; famose le polemiche contro il suo Nachlappen (un procedimento della scuola romantica dell’ottocento che prevede un micro ritardo tra una mano e l’altra); Rubinstein e Claudio Arrau hanno lasciato giudizi poco lusinghieri sulla sua presunta “freddezza” (“il robot del pianoforte”, arrivarono a dire) e negli ultimi anni di attività poi i soliti soloni deprecarono l’assottigliamento del suo repertorio, ignorando che invecchiando tutti noi circoscriviamo i nostri interessi limitandoli a ciò che riteniamo essenziale.

Al di là di queste considerazioni, il centesimo anniversario impone alcune riflessioni sulla parabola stilistica del pianista bresciano. Se si ha voglia di ascoltare la registrazione del Concerto in la minore di Schumann, effettuata nel 1943 credo, con Dimitri Mitropoulos e la Filarmonica di New York, ciò che colpisce innanzi tutto è un misto di tecnica, leggerezza, potenza e senso del colore. Impossibile non restarne avvinti. Confrontando quest’interpretazione con altre più tarde, a partire dai video dedicati a Chopin e Debussy che la Rai anni fa mandava ogni tanto in onda, alle registrazioni fattesi sempre più rare degli anni ’80 (a causa dei seri problemi di salute che l’avevano afflitto), sia di pagine pianistiche che concertistiche, si noterà un’apparente diminuzione della varietà e della paletta timbrica. Più meditativi, più lenti, più antivirtuosistici risultano i suoi Beethoven, Chopin, Debussy, Mozart. Meno edonisticamente coinvolgenti. Ma quale profondità interpretativa: si prenda ad esempio la transizione tra l’adagio dell’Imperatore di Beethoven con Giulini: le pause impercettibilmente variate e l’attacco del Rondò completamente scevro da ogni atletismo e da ogni soprassalto dinamico. Basta la scrittura di Beethoven, sembra ricordare Michelangeli, a rendere tutto quello che c’è da dire. Ma ancora occorre rilevare che, nonostante la palesazione virtuosistica degli anni quaranta e cinquanta risultasse definitivamente archiviata, la tavolozza timbrica schiudeva nuove prospettive grazie ad un dosaggio infinitesimale di microaccelerazioni e micro rallentandi, nonché di micro escursioni dinamiche, quasi impercettibili, ma proprio per questo così personali.

Le collaborazioni con Sergiu Celibidache resteranno memorabili anche perché i due artisti, entrambi caratterialmente difficili ed esigenti, avranno una parabola interpretativa per alcuni versi simile. Dalla pratica del bel suono all’interpretazione che rivela nuove strade e nuove sonorità (nel vero senso della parola: questa è la formula della loro evoluzione artistica: si provi ad ascoltare il Debussy pianistico di Michelangeli e quello orchestrale di Celibidache. Di questa pratica esecutiva così illuminante dobbiamo essere estremamente riconoscenti a Michelangeli (Ciro per i famigliari ed i pochi amici). Nei pochi video di concerti lo si vede misuratissimo nelle entrate e nelle uscite, e nell’esecuzione ogni esteriorità inutile è del tutto assente. Solo musica. Ed allora in questi tempi difficili in cui il coronavirus ci costringe a rivedere azioni quotidiane e forse anche modalità di approccio alla vita differenti, più improntate all’essenzialità, e meno al superfluo, all’inutile ed ai bisogni indotti dalla moda e dalla pubblicità, la lezione artistica di Arturo Benedetti Michelangeli, può essere attuale, risarcitoria, riparatrice.

Lo star system affligge anche il sempre più compromesso mondo della musica artistica: improprie contaminazioni e una pseudo cultura esasperata dell’immagine tendono a volte a sostituirsi alle ragioni musicali. Forse è tempo di ritornare ad un’interiorità profonda per esecutori e pubblico, perché è attraverso di essa che si coltiva quella consapevolezza che può portare talvolta alla gioia ed alla felicità.