Ladri ed eroi

Una canzone di Antonello Venditti di qualche anno fa, recitava questo mondo di ladriquesto mondo di eroi. Penso che, di primo acchito, la gran parte di noi non si giudichi ladro, né eroe, e pertanto  sorrida, dentro  di sé, alla vena ironica che ne  emerge  sentendosene, in qualche modo, estraneo. Ma è proprio vero? E, se mai, fino a che punto?

Può essere dunque  divertente, oltre che utile, cercare spunti di riflessione, che, per gli scettici (che non significa dubbiosi, bensì “attenti”, da skepsis = attenzione), sono presenti un pò dappertutto. Come sempre si deve partire dal definire,  appunto con attenzione, ciò di cui si sta parlando: che cosa significa ladro e che cosa significa eroe. Si tratta di termini dal senso abbastanza esteso, per cui non ho la presunzione di sviscerarne i molteplici significati e interpretazioni. Potrei dire, semplificando, che il termine ladro si può approssimare in modo accettabile al concetto di proprietà. Sono ladro se mi impossesso indebitamente della proprietà di qualcun altro. Per esempio se entri nella mia automobile e te la porti via senza il mio consenso, diciamo che  me la rubi, quindi sei un ladro. Ti sei impadronito di una mia proprietà. Per continuare un’analisi seria, bisognerebbe allora sapere con precisione che cosa si intende per proprietà. Ma mi addentrerei in un ginepraio di definizioni irte  di teorie  politico-economico-legali in cui, per lo meno io, non saprei districarmi senza indugiare in banalità di comune riscontro. Per inciso è quanto si rischia ogni qual volta discutiamo (dis = da una parte e dall’altra e quatere = scuotere, separare ) su qualsiasi argomento. In genere disputiamo (dis-puto) su tutto con estrema superficialità, spesso  senza nemmeno sapere di che cosa stiamo parlando. Mi limito perciò a considerazioni molto basali che però, essendo tali, rischiano forse un pò meno di essere banali. La più banale  è che esiste un comandamento di dio ( mi sembra il settimo) che ordina di non rubare. Ora io penso che quando si fa una legge significa che è indispensabile. Nel senso che non si fa una legge che predichi “non smettere di respirare”, ( o di mangiare, di bere, di dormire ecc.) semplicemente perché non ce n’è bisogno. Quindi se c’è una legge che dice non rubare, significa che, se non ci fosse, ruberemmo. Se estendiamo questa considerazione a tutto il  semplicissimo codice legislativo di Mosè, ne nasce già di per sé una bella autoanalisi su che  razza di esseri siamo noi umani.

La proprietà è un furto

Il filosofo Joseph Proudhon

Saltando un po’ di palo in frasca, mi viene in mente un’altra frase celebre a proposito della proprietà: “La proprietà è un furto.” Mi pare fosse di un certo Proudhon, un filosofo del diciannovesimo secolo che, per alcuni aspetti, ispirò Carlo Marx nell’analisi della natura e dei problemi del capitalismo. Oltre che un furto, Proudhon definì la proprietà: insostenibile, dispotica, ma anche, stranamente, affermò:” la proprietà è libertà”. Ora, siccome per Proudhon l’unica e legittima fonte di  proprietà è il lavoro, per  transizione si potrebbe riproporre  un’altra celebre frase: il lavoro rende liberi. Ma, detta così, specialmente se citata in tedesco,  fa venire i brividi, per cui lasciamo perdere.

Si sarà capito che mi sono divertito in un gioco molto comune, su cui si lastricano le vie della cultura da salotto. Ossia estrapolare alcune frasi di chiunque isolandole dal contesto in cui sono nate per dimostrare ciò che ci pare. E’ una cosa che piace molto ai politici. Lo hanno fatto per secoli con Nietzsche, con Darwin e con innumerevoli altri ecc, per cui me lo concedo anche io con Proudhon che è meno noto. Basta sapere che si gioca.

Tornando alla canzone di Venditti, mi intrigano invece un po’ di più  alcune riflessioni sugli eroi. Appurato, fra una battuta e l’altra, che ladri, chi più chi meno, lo siamo quasi tutti ( anche perché siamo scimmie, gli animali più ladri del creato), siamo forse anche eroi? I dieci comandamenti, di eroi non ne parlano. E’ già qualcosa. Ne parlano invece i miti e l’epos greci. La mitologia greca, mediterranea e mediorientale in genere, è talmente popolata  da eroi che temo di non sbagliare se affermo che nessuno li conosce tutti. Tuttavia i concetti fondamentali sono relativamente pochi, perché pochi sono i comportamenti  umani di base, anche se ci diamo tante arie. Lungi dal voler giungere ad analisi antropologiche e filologiche di cui  avrei ben poche competenze,   mi sono divertito ad estrapolare dai nostri eroi qualche riflessione sulla  natura  umana. Gli eroi nascono dal culto dei morti, ma finiscono poi per divaricarsene. Nella fede del popolo e nella pratica religiosa delle stirpi e delle città, gli eroi avevano il loro saldo posto accanto agli dei. L’età più antica non ce li ha determinati con esattezza e precisione. Gli eroi ( come oggetti di culto) erano da principio anime umane straordinariamente elevate,  spiriti umani di  grado superiore si, ma umani. Gli eroi venivano venerati con sacrifici, come gli dei, ma mentre agli dei si sacrificava in pieno giorno, agli eroi verso sera o di notte, non su un altare elevato, ma su un focolare sacrificale basso, vicino al suolo, talvolta incavato. Il sangue degli animali veniva lasciato colare sulla terra, perché gli eroi se ne saziassero. Insomma era un culto per niente trascendente, molto terrestre, di cui la morte era ancora il cardine. Ma mentre per gli dei lo era per il fatto di non esserci (gli  dei sono immortali), per gli eroi la morte non solo c’è, ma diventa indispensabile. La figura dell’eroe è, alla fin fine , una figura umana e lo diventa sempre di più fino a diventare vero uomo, appartenente o antenato di stirpi aristocratiche. Gli eroi sono stati uomini e sono diventati eroi dopo la morte, anzi, grazie alla morte. Achille può scegliere fra una vita  lunga e tranquilla con moglie, casa e figli, e una breve e turbolenta che però gli garantisca l’immortalità nella gloria; e, come sappiamo, non ha dubbi. Con Omero pertanto gli eroi cominciano a vivere, alcuni come semidei (Achille, Enea) ossia figli di un mortale e di una divinità; altri semplici uomini, seppur aristocratici, che era sinonimo inalienabile di liberi ( per cui, in questo caso, non è il lavoro che rende liberi, ma la nobiltà della stirpe). Gli eroi dell’Iliade sono tutti Prìncipi. La poesia omerica che elimina rigorosamente ogni idea di vera, cosciente e attiva vita delle anime dopo la morte, non poteva certo indurre a pensare  che i suoi eroi continuassero a vivere e ad operare  da morti  fuori dalle tombe. Sorge quindi chiara, l’opposizione fra la fede primigenia negli eroi e le  posteriori  concezioni omeriche.

Gli eroi omerici sono uomini

Gli eroi omerici  ( e in seguito quelli della tragedia attica) sono uomini. E allora che cosa ci suggeriscono quegli uomini, eletti, ma pur sempre uomini, della nostra umanità , se è vero che l’epos omerico è il mito fondante della civiltà occidentale? La prima parola dell’Iliade è menin, ira: “Canta , o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo” Il poema che fonda la nostra civiltà, incomincia con l’ira di un eroe e, in definitiva, racconta solo quella. Gli eroi si arrabbiano, litigano, si insultano, tradiscono, piangono. Achille piange per l’abbandono di Briseide, per la morte di Patroclo e poi anche di solitudine, in riva al mare, come un bambino abbandonato.  Non sempre sono coraggiosi; talvolta hanno paura, scappano. Ettore fa tre volte il giro delle mura prima di affrontare Achille. Sono crudeli e teneri, spietati e dolci. Perché sono uomini. Hanno emozioni e sentimenti e ne sono preda, altrimenti non potrebbero essere eroi; al massimo  dei duri, ma i duri non sono eroi, tutt’al più bulletti da bar. E poi non ci sono eroi buoni e eroi  cattivi. Ogni eroe “è”, a seconda dell’avversario che affronta e, ancora di più, delle circostanze. E’ sempre cosciente ed è sempre libero, anche se non può opporsi al fato. Aiace ed Ettore si battono con ferocia, ma interrompono il combattimento al tramonto  del sole, come era consuetudine. Ma prima di allontanarsi si scambiano regali, en philotteti, in amicizia; per poi ricominciare l’indomani; odio e rispetto. L’eroe non è un blocco monolitico di perfidia o di perfezione, di nobiltà o infingardia. E’ sempre molteplice, doppio, dissos. E’ pronto ad accettare i dissoi logoi, i discorsi doppi  di chiunque e ne fa, ne vive, come avviene nella tragedia attica. Ed è per questo che l’eroe è sempre bello, kalòs, e anche  agazòs, che non vuol dire bravo, ma buono, ossia  fatto bene, completo. Buono, nello stesso senso che intende la Bibbia: “Dio vide quanto aveva fatto,ed ecco, era cosa molto buona.”. (Gen. 1, 31). Per i greci corpo e anima coincidono. Un’anima buona è anche un’anima bella, perché è completa, nel suo bene e nel suo male. Ne abbiamo conservato anche noi una certa inconscia memoria, quando diciamo di qualcuno che è una bella persona, anche se ne riconosciamo le debolezze, talvolta difficili da digerire. Molti secoli dopo lo capirà anche Dante, pur così lontano nella sua filosofia patristica dalla mentalità greca, quando metterà Ulisse  all’inferno nel girone dei consiglieri fraudolenti a bruciare in una fiamma doppia insieme a Diomede. Eppure, questi due eroi belli, hanno compiuto insieme azioni brutte, come trucidare nemici nel sonno ( Iliade, libro X), o concepire e attuare l’inganno del cavallo, che è una volgare truffa. Ma nell’epos greco, come nell’Inferno, persino in quello dantesco, così canonico, così didascalico, eppure così umano, non ci sono malvagi. Ci sono solo peccatori.