“Bentornato!”. Una voce dalla platea del Carlo Felice ha salutato ieri sera, in apertura del secondo tempo del concerto, il ritorno di Daniel Oren a Genova.
Se la memoria non mi inganna mancava dal 2010, ma soprattutto il ricordo di molti andava alle sue prime performarces di quasi quarant’anni fa, nell’indimenticato Teatro Margherita. Oren ha mantenuto ancora saldo il legame con la parte più attempata del pubblico genovese, quella che, appunto, negli anni Ottanta lo aveva applaudito in Nabucco, in Tosca, in Manon, in Rigoletto, tanto per citare alcuni dei titoli da lui diretti.
Un legame che sa anche di nostalgia per un periodo che all’epoca ci pareva grigio, ma che, ripensato oggi, aveva una vitalità che gradualmente si è persa. Il 1987 è l’anno della posa della prima pietra del nuovo Carlo Felice e gli ultimi anni Ottanta passarono nell’attesa del grande salto, fra spettacoli di tutto rispetto e clamorosi tonfi passati alla storia, dal Mefistofele dui Ken Russell alla storica Traviata della Sutherland, passando per le polemiche intorno ad un allestimento megagalattico dell’Alceste (e sul podio c’era proprio Oren),
Oren fu, nel bene e nel male, uno dei protagonisti assoluti di quegli anni e rivederlo sul podio, ci ha fatto molto piacere. Perché al di là di un temperamento focoso che all’epoca causò non poche polemiche (quanti i cantanti da lui “protestati”!), aveva una straordinaria capacità di trascinare l’orchestra e con essa il pubblico. Non si risparmiava sul podio, i suoi salti sono entrati nella storia del nostro teatro.
Oggi non salta più, ma il gesto è sempre ampio, energico, la sua capacità di comunicare pathos, intatta. Lo ha dimostrato in un programma particolarmente adatto al suo temperamento. Prima parte dedicata a Beethoven con l’Ouverture da Egmont restituita con trascinante irruenza.
Poi il Concerto n.5 Imperatore con il giovane e talentuoso pianista Gabriele Carcano. Autorevolezza tecnica, Carcano ha affrontato la complessa partitura con piglio e sensibilità convincendo soprattutto nel fraseggio più lirico e delicato (si pensi al secondo movimento). Oren, nell’assecondare con intelligenza il solista, ha privilegiato una lettura più intimista, giocando su quei pianissimi che rappresentavano già in passato una sua cifra interpretativa.
La passionalità e l’esuberanza del direttore israeliano sono emerse invece nella loro pienezza nella seconda parte del concerto riservata alla Sinfonia n.5 di Cajkovskij. Una partitura densa di pathos, di slanci melodici straordinari (si pensi al tema del corno nel secondo tempo), ma anche di forti accenti drammatici, di scatti nervosi che hanno trovato in Oren un esecutore ispirato. Travolgente il finale con un’accelerazione che ha messo a dura prova l’intera orchestra. Prova eccellente di tutti con le prime parti (e si cita il cornista Carlo Durando) in evidenza.
Ovazione finale per Oren che ha ripetuto il finale della Sinfonia di Cajkovskij prima di abbracciare molti orchestrali (e diversi di quarant’anni fa, ormai in pensione, erano fra il foltissimo pubblico) e guadagnare l’uscita.