Giù le mani da Puccini

Lo spettacolo inaugurale del Festival di Puccini a Torre del Lago con le polemiche che ne sono seguite induce a qualche riflessione.

Innanzitutto i fatti. Di fronte alla regia fantasiosa di Christophe Gayral  che ha ambientato Boheme nel Sessantotto  con conseguenti spinelli, minigonne, abiti hippy e quant’altro per Mimi, Rodolfo e compagni, il sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi ha fatto fuoco e fiamme e ha invitato il direttore d’orchestra Alberto Veronesi a dirigere bendato per non vedere cotante brutture.

Veronesi così ha fatto. Si è presentato sul podio con una fascia che poi ha abbassato sugli occhi. Morale: contestazioni a lui per il gesto, ma anche al regista per le provocazioni.

Dico subito che non ho visto lo spettacolo quindi non posso emettere giudizi sull’allestimento registico nè sulla direzione orchestrale ad occhi chiusi (chissà cosa ne avrebbe pensato Puccini a cui si deve un magnifico “Coro a bocca chiusa”!).

I lettori che hanno avuto modo di leggere mie recensioni sanno bene che non amo le regie stravolgenti e che faccio mia d’abitudine la affermazione di Montale: “Dobbiamo scandalosamente dichiarare che nella rappresentazione di un’opera d’arte consideriamo regia e scenografia elementi d’interesse secondario”.

Il discorso, tuttavia, riguarda in questo caso altro.

Uno spettacolo dovrebbe nascere da un progetto condiviso con largo anticipo fra regista, scenografo e direttore d’orchestra. Stupisce quindi che si arrivi alla prima esecuzione con una simile reazione. Naturalmente gli incidenti fanno parte della storia del teatro. Riporto due esempi del passato.

Nel 1974 (ho già ricordato questo aneddoto in un recente articolo, mi scuseranno gli eventuali lettori) fece scalpore lo scontro a Salisburgo fra Karajan e Strehler durante le prove del Flauto magico. Karajan non accettò un’idea registica di Strehler e diede un ultimatum o lui o Strehler. E Strehler saltò.

Secondo episodio. Nel lontano 1987 il Margherita ospitò una storica edizione del Mefistofele di Boito con la regia provocatoria e dissacrante di Ken Russell. Il direttore era Vladimir Delman che pur abituato a regie provocatrici non accettò le invenzioni di Russell e dopo la generale si ritirò.

I due episodi sono casi limiti nei rapporti fra direzione e regia di uno spettacolo. Né a Karajan né a Delman è passato per la testa l’idea di bendarsi per non vedere!

Contestare un proprio spettacolo sembra un autogol. In questo caso poi c’è l’aggravante del suggerimento “politico”, il “suggerimento” di un sottosegretario.

Beatrice Venezi

In tema politico, Lucca, Torre del Lago e Puccini in questi giorni non si sono fatti mancare nulla. Perché proprio all’inzio della settimana scorsa il concerto inaugurale con l’Orchestra del Carlo Felice ha visto la giovane direttrice d’orchestra Beatrice Venezi proporre come bis l’Inno a Roma composto da Puccini nel 1919 e successivamente fatto “proprio” prima da Mussolini e poi dal MSI di Almirante.

La Venezi, contestata pochi giorni fa a Nizza (dove avrebbe dovuto dirigere) con l’accusa di essere fascista (il padre era un dirigente nazionale di Forza Nuova, lei è consulente artistica del Ministro della Cultura), ha scelto l’arma della provocazione per rispondere alle accuse e nel presentare la partitura ha dichiarato di non voler sottostare a censure. Le censure politiche in campo culturale sono sempre pericolose. Anni fa un amico critico, oggi purtroppo scomparso (ne tacerò evidentemente il nome) mi disse che gli era stato richiesto dal suo giornale di stroncare Maurizio Pollini “pericoloso artista di sinistra” (e naturalmente si era rifiutato).

Censura allora, censura oggi?

In questo caso però al di là della provocazione c’era un motivo di opportunità che avrebbe dovuto trattenere la Venezi: in un concerto inaugurale dell’anno pucciniano inserire un lavoro che Puccini scrisse controvoglia con la mano sinistra non è un bel servizio all’illustre compositore conterraneo della direttrice.

Il rischio, insomma, è che nelle diatribe politiche di basso livello finiscano invischiati uno dopo l’altro i nostri compositori a seconda dell’etichetta politica che qualcuno vorrà dargli.

Non è un bel modo di fare cultura.