L’inno nazionale: un “Canto” nella tradizione italiana

Il 2 giugno prossimo, festa della Repubblica, risuonerà ovunque. Ma quest’anno, in un momento così difficile per il nostro Paese unito da una tragedia inimmaginabile, avrà un significato ancora più profondo di aggregazione e di partecipazione.

Parliamo del nostro Inno nazionale, il Canto degli Italiani scritto quasi di getto nel 1847 da Goffredo Mameli e da Michele Novaro.

Recentemente a questo lavoro musicale, amato e discusso, è stato dedicato un attento e rigoroso studio (Il Canto degli Italiani”, edizione critica a cura di Maurizio Bendetti, ed. del Conservatorio “G.Verdi” di Torino) lodevole per varie ragioni. Innanzitutto perché restituisce dignità  a due artisti genovesi che meriterebbero maggior fama e che hanno dedicato la loro esistenza alla causa risorgimentale: “Siam pronti alla morte” aveva scritto Mameli e morì ad appena 22 anni nel 1849 sulle barricate di Roma.

Ma anche Novaro non fu da meno:  consacrò la propria arte alla lotta per la libertà, compose decine di Inni e si prodigò a organizzare concerti e raccolte di denaro finalizzate al finanziamento delle iniziative insurrezionali.

Nato a Genova il 23 dicembre 1818 Michele fu il primo di cinque figli di Gerolamo Novaro, oriundo di Dolceac­qua (Ventimiglia) e futuro macchinista del Teatro Carlo Felice, e di Giuseppina Canzio, sorella del pittore e scenografo Michele Canzio.

Canzio, dapprima attivo al Teatro Sant’Agostino, passò poi al Carlo Felice, dove, in due diversi periodi (1832-1836 e 1850-1854) operò anche come impresario. Dal suo matrimonio con Carlotta (figlia del poeta Martin Piaggio) nacque Stefano, che sposò Teresita, figlia di Garibaldi.

All’apertura della Scuola gratuita di Canto (futuro Conservatorio Paganini), istituita nel 1829, con lo scopo di fornire cantanti e strumentisti al Carlo Felice costruito l’anno prima, Michele Novaro fu iscritto come allievo. Il  6 ottobre 1838 Novaro cantò alla prima cittadina di Gianni di Ca­lais di Donizetti al Carlo Felice dove partecipò pure alla Marescialla d’Ancre di Nini (1840).  Ritroviamo poi Novaro al  Regio di Torino nelle stagioni 1840/41 (Beatrice di Tenda di Bellini e Il lago delle fate di Coccia), 1841/42 (Marin Faliero di Donizetti e I puritani di Bellini),  1842/43 (Il Reggente di Mercadante) e 1844/45 (Ernani di Verdi e Norma di Bellini).

L’apice della carriera di cantante Novaro lo toccò nel biennio 1842-43 come secondo tenore nel cast italiano al Kärntnertortheater di Vienna: nel 1842 cantò nella Vestale, in Lucia di Lammermoor e alla «prima» di Linda di Chamounix (nella parte dell’Intendente). Nel 1843 ancora nella Linda, in Don Pasquale, nella Gazza ladra e alla «prima» di Maria di Rohan. Fra gli austriaci convenuti ad applaudirlo anche l’odiato Metternich.

Nel 1847 Novaro si trasferì a Torino per lavorare come secondo tenore e maestro dei cori al Regio e al Carignano. Lì, nel giro di poche ore, compose il  Canto degli Italiani.

Secondo una testimonianza di Anton Giulio Barrili, una sera di novembre Novaro fu raggiunto in casa dello scrittore e patriota Lorenzo Valerio dal pittore Ulisse Borzino che, proveniente da Genova,  gli consegnò un testo di Goffredo Mameli. Novaro lo lesse, ne fu colpito, abbozzò lì per lì un tema, poi corse a casa e compose l’Inno, che in breve si impose come il più appassionante canto patriottico del momento.

Convinto liberale, Novaro mise il proprio talento al servizio della causa risorgimentale. Non solo compose pagine d’occasione, ma organizzò spettacoli benefici: basta ricordare quello del 13 febbraio 1860 al Carlo Felice (“in vantaggio della patriottica soscrizione di un milione di fucili, promossa dal prode generale Garibaldi”).

Nella stagione autunnale del 1861 e in quella successiva di carnevale (1861/62) lavorò come impresario al Carlo Felice. Sempre nei primi anni ‘60 fondò una “Scuola di canto popolare” per la quale adottò il metodo numerico ideato da Rous­seau. Nei mesi successivi si recò in Germania per studiare l’organizzazione delle scuole musicali di quel Paese. Per i suoi giovani studenti, Novaro rielaborò celebri opere: si cita, nel 1876, la parodia  della Norma belliniana, La sacerdotessa d’Irminsul.  Due anni prima (22 ottobre 1874) al Teatro Nazionale aveva messo in scena la sua opera buffa in dialetto genovese O mëgo pe forsa, su versi del poeta Nic­colò Bacigalupo.  D’indole modesta, incapace di trarre vantaggi dal successo, trascorse gli ultimi anni in povertà; la sua condizione migliorò nel 1878 quando ottenne l’incarico di maestro di canto nelle scuole municipali. Novaro morì nella sua città il 20 ottobre 1885. E’ sepolto nel Cimitero di Staglieno, non lontano da Mazzini.

Tornando a Benedetti, il suo saggio musicologico risulta di notevole interesse,  con una analisi rigorosa attraverso le varie fonti di un’opera, testo e musica, che è figlia del suo tempo, ovvero di un’epoca in cui i teatri italiani erano dominati dal melodramma. E lo spirito dell’opera, del resto, aleggia in tutto l’inno che, non a caso, è intitolato “Canto” e che si configura come una efficace scena teatrale: l’eroe (il tenore, certamente), a gambe ben piantate in terra, attacca “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta…” rivolgendosi al popolo (il coro) che lo ascolta, freme e poi interviene,  “Stringiamoci a coorte ecc.”. Il teatro verdiano con le sue prime impennate risorgimentali, era lì, ancora fresco.

Giova ricordare (e il nostro autore lo fa con dovizia di documenti citati in apertura) che il Canto degli Italiani è stato ufficialmente riconosciuto come inno nazionale solo nel 2017. Nel 1946 era stato scelto in via provvisoria e, si sa, in Italia nulla è più definitivo delle cose provvisorie.

Ma vale la pena ricordare ancora un fatto storico.

Nel 1862 Giuseppe Verdi fu invitato a scrivere un Inno per l’Esposizione universale di Londra. Compose allora, su versi di Arrigo Boito, l’Inno delle Nazioni inserendo nella sua partitura i temi della Marsigliese, dell’inno inglese (God save the Queen) e del Canto degli Italiani: per noi oggi questo è un fatto totalmente normale, ma all’epoca la pagina di Mameli e Novaro non era, come già ricordato, l’inno italiano, caso mai avrebbe dovuto utilizzare l’inno di casa Savoia. Perché scelse il Canto degli Italiani? Evidentemente perché già allora questa pagina, popolare e “facile”, era percepita come il vero, autentico simbolo della nostra italianità  e della nostra ritrovata libertà.

Lascia un commento